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domenica 25 febbraio 2007

lunedì 19 febbraio 2007

Siamo a cavallo!

Grande sconcerto dei genitori inglesi di fronte alla notizia di Harry Potter (ovvero Daniel Radcliffe) nudo e senza nemmeno gli occhiali nella piéce teatrale scandalo “Equus” di Peter Shaffer, l’autore anche di ”Amadeus”.
Sarebbe come se in Italia Cristina d’Avena avesse interpretato un film di Tinto Brass.

Maga Maghella Rowling pensa di far morire veramente il suo maghetto dalle uova d'oro, piuttosto che dover dare un titolo come questo al prossimo capitolo della saga.
In ogni caso 'sto ragazzo cresce troppo in fretta, ormai non sta più nelle mutande.

E a proposito di fave...


sabato 17 febbraio 2007

Etiopia 1937: i crimini italiani dimenticati, da Addis Abeba a Debra Libanos

Lunedì ricorrerà, molto probabilmente nel silenzio e nell'amnesia generali, il 70° anniversario di una delle pagine più nere della storia coloniale italiana e di uno degli episodi più vergognosi, il massacro di civili etiopi che seguì come rappresaglia all’attentato al Vicerè d'Etiopia Rodolfo Graziani, avvenuto il 19 febbraio 1937.

Graziani, prima del suo incarico in Africa Orientale al fianco del Maresciallo Badoglio, aveva già condotto con ferocia la repressione contro i ribelli di Omar el-Mukhtar in Libia nel 1921, come narra anche un film americano del 1981 con Anthony Quinn e Oliver Reed, “Il leone del deserto”, censurato e mai distribuito nel nostro paese.

Durante la Seconda guerra italo-abissina, il generale si distinse per la spregiudicatezza con la quale irrorava di gas come l’iprite le popolazioni “ribelli”, con il pieno beneplacito di Mussolini, che in diversi telegrammi ai suoi generali autorizzava lui e Badoglio all’uso sistematico delle armi chimiche: “Dati sistemi nemico di cui a suo dispaccio n.630 autorizzo V.E. all'impiego anche su vasta scala di qualunque gas et dei lanciafiamme”.

Sull’utilizzo dei gas da parte dell’esercito italiano in Etiopia vi fu una lunga diatriba molti anni fa tra Indro Montanelli e lo storico Angelo Del Boca. Montanelli negava che questi crimini fossero stati compiuti. Quando poi Del Boca, uno dei massimi esperti di colonialismo italiano, produsse documenti inoppugnabili che dimostravano la realtà dei fatti, Montanelli ebbe la signorilità di ammettere il suo errore.

Il 19 febbraio 1937 Graziani, per festeggiare la nascita a Napoli dell’erede al trono Vittorio Emanuele, il nostro principe dei casinò, convocò nel suo palazzo di Addis Abeba un bel po’ di notabili locali e qualche centinaio di poveri, ciechi e storpi ai quali annuncia che farà l’elemosina di due talleri d’argento. Mentre è in corso la sfilata dei reietti, alle 12,20 degli etiopi che si erano mescolati tra la folla lanciano alcune granate all’indirizzo del palco delle autorità. Pur non essendo le deflagrazioni di enorme potenza, il bilancio delle vittime sarà di sette morti e circa cinquanta feriti tra i quali, in modo non grave, lo stesso Graziani.

La rappresaglia, condotta dal federale Cortese ed eseguita per massima parte da civili italiani, la cosiddetta gente comune, fu spietata e colpì alla cieca nei tre giorni che seguirono. Per primi coloro che si trovavano all’interno del cortile dove era avvenuto l’attentato, non ebbero scampo. L’inviato speciale del Corriere della Sera Ciro Poggiali così scrisse: "Tutti i civili che si trovano ad Addis Abeba hanno assunto il compito della vendetta, condotta fulmineamente coi sistemi del più autentico squadrismo fascista. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada... Vedo un autista che, dopo aver abbattuto un vecchio negro con un colpo di mazza, gli trapassa la testa da parte a parte con una baionetta. Inutile dire che lo scempio si abbatte contro gente ignara e innocente".

Tra le testimonianze straniere della ferocia scatenata dagli italiani sulla popolazione locale quella dell’ambasciatore USA che per descrivere l’accaduto fece riferimento agli orrori del genocidio turco degli Armeni del 1917. Ma anche testimoni italiani si dissero sconvolti da quanto videro con i propri occhi.

Graziani, dal letto d’ospedale, ordina ai governatori delle altre regioni di agire con il massimo rigore. Si incendiano i tucul, le chiese copte, i raccolti, i terreni coltivati. Si uccide il bestiame e si inquinano i terreni con aggressivi chimici. Gli inglesi denunciano al proprio Parlamento l’uccisione di 700 etiopi che si erano in un primo tempo rifugiati nell’ambasciata del Regno Unito ad Addis Abeba. Vengono uccise migliaia di persone.
Il bilancio di tre giorni di massacro è stimabile, secondo le fonti più attendibili inglesi, francesi e americane, in circa 6.000 vittime, anche se fonti etiopi arrivano a contarne 30.000.

Graziani ordina quindi la fucilazione di esponenti della intelligencija etiopica e perfino di decine di indovini e cantastorie, colpevoli solo di aver predetto il crollo del regime coloniale.
Le esecuzioni sommarie di presunti colpevoli e fiancheggiatori degli attentatori proseguiranno nelle settimane e nei mesi successivi, fino al massacro di Debra Libanos.

Questa città conventuale era uno dei luoghi più sacri al cristianesimo copto.
Convinto che nel monastero avessero trovato rifugio i responsabili dell’attentato, nel mese di maggio Graziani ordina al generale Maletti di spazzar via ”tutti i monaci compreso il vicepriore". A queste prime vittime passate sommariamente per le armi con le mitragliatrici pesanti sull'orlo della stretta gola di Zega Waden, si aggiungeranno poco dopo anche i diaconi, poco più che ragazzini. Il bilancio di questa carneficina, compiuta su religiosi cristiani con l’aiuto dei 1.500 armati musulmani della banda di Mohamed Sultan, secondo studi e scavi recenti va da un minimo di 1.600 ad un massimo di 2.200 vittime. Martiri dimenticati dal calendario.

Durante l’estate scoppiano altre rivolte e continua la repressione, che culmina con l’esecuzione di Hailù Chebbedè, considerato il capo dei ribelli, la cui testa mozzata portata come trofeo in giro per l'Etiopia (si dice in una scatola di latta per biscotti) fu issata su un palo e mostrata nelle piazze dei mercati.
Altri massacri ed episodi efferati vedranno gli italiani protagonisti negli anni successivi, come nel 1939 a Debra Brehan, dove più di mille tra uomini, donne, vecchi e bambini saranno gasati con l’iprite nelle grotte dove si erano rifugiati.

Il dominio coloniale italiano in Etiopia finirà solo con la sconfitta del 1941 ad opera dei britannici e con il ritorno sul trono dell’imperatore Hailè Selassiè.
Arresosi alle truppe anglo-americane nel 1945, Graziani fu processato nel 1948 e condannato a 19 anni di carcere, 17 dei quali gli furono condonati. Nel 1953 divenne presidente onorario del MSI ma in contrasto con alcuni camerati preferì ritirarsi a vita privata. Morì nel 1955 nella sua casa di Roma.

Immagine tratta da "Fascist Legacy" di Ken Kirby, produzione BBC.

venerdì 16 febbraio 2007

Un grande centro con la democrazia intorno

Anche se questo blog si intitola “l’orizzonte degli eventi” non sto per parlare di fisica delle alte sfere e di buchi neri teorici ma di politica. Come dire dalle stelle alle stalle ed eventualmente ai prodotti evacuativi delle vacche che vi si trovano in abbondanza.
In questi giorni non posso fare a meno di immaginare la politica italiana, e forse quella mondiale, come un grande buco nero, con un centro che tutto attrae, uniforma, omologa e alla fine inghiotte. Un grande buco con l’ingoio e con la democrazia intorno, che rischia di cascarci dentro per sparire per sempre. Sono troppo pessimista? Vediamo. Il materiale di studio non manca.

Cominciamo con qualche spunto di attualità. Sabato vi sarà una manifestazione contro l’ampliamento della base militare americana a Vicenza che, nonostante gli orafi, non è affatto approvato da tutta la popolazione locale come vogliono farci credere.
In qualunque altro paese, dove le manifestazioni sono ancora considerate espressione di democrazia, vi sarebbe una normale vigilanza delle istituzioni contro eventuali episodi di violenza ma niente di più. Da noi, i giornali e le varie grancasse del pensiero unico stanno creando da giorni un clima da scontro, da allarme rosso, da “precrimine”. Sembrano già sapere che accadrà qualcosa di grave. Siamo quasi alla criminalizzazione preventiva di chi parteciperà al corteo tanto che ormai, dopo tutte le defezioni annunciate, rischiano di andarci solo Diliberto e sua zia.

L’ineffabile Rutelli, che sta studiando da Scajola con un corso accelerato su cassette, ammonisce i manifestanti che se non faranno i buoni “je mena”. Più di Genova sarà difficile, ma mai sottovalutare Cicciobello con la faccia feroce. In altri paesi qualcuno penserebbe che forse qualcuno del governo sta soffiando inutilmente sul fuoco, ma da noi non si stupisce nessuno.
Prodi, dal canto suo, rimanendo serio, ha affermato che “ il governo non manifesta contro se stesso” ovvero non si manifesta contro il governo. Oh bella, se il governo che ho votato fa una cazzata non posso dire che sono contraria?
La lezione che sto imparando da questa vicenda è comunque questa: nonostante gli americani ci abbiano appena detto sul muso che sul caso Calipari possiamo attaccarci allegramente al tram, noi non dobbiamo e non possiamo protestare contro di loro. Loro sono in guerra contro i loro mulini a vento e non accettano critiche, con il governo Prodi che fa “si, si” con la testa e gli allarga le basi.

Seconda notizia. Un’indagine della Procura di Milano avrebbe sgominato le Nuove BR che si apprestavano a colpire nuovamente vari obiettivi. La realtà romanzesca vuole che colei che ha “salvato” Berlusconi da un presunto attentato in Via Rovani (dove già scoppiò la bomba affettuosa attribuita da Dell’Utri a Mangano lo stalliere), sia stata Ilda la Rossa, la giudice Boccassini. Chissà quando avranno dovuto dirlo a Silvio, come l’avrà presa male. Gli saranno crollate le certezze.
Mentre ci rallegriamo e magari attendiamo anche di conoscere già che ci siamo tutta la verità sulle “vecchie” BR, sulla figura di Mario Moretti e i misteri del caso Moro, non posso fare a meno di notare come le notizie sulle BR stiano servendo a qualcuno per gettare fango, per non dire merda, a palettate sull’intera sinistra.

Per salvarsi dall’accusa di comunismo corrono tutti verso il grande centro col risucchio, dove già si trovano tanti riformisti-riformaroli che a tutto abboccano e dove tutto si confonde, al punto che l’incipit del manifesto del neo partito democratico, con il suo “Noi, i democratici, amiamo l'Italia"... è un clamoroso plagio de “L’Italia è il paese che amo…” dal famoso discorso di Berlusconi con la calza sulla telecamera.
Quasi una premonizione all’italiana della definizione di Gore Vidal degli Stati Uniti: “un paese con due partiti, uno di destra e l’altro di estrema destra.”

martedì 13 febbraio 2007

Cronache dal Rione Sanità

Ho ricevuto nei giorni scorsi questa email, che propongo alla vostra riflessione. Credo che la vignetta del “Dr. Mouse” di Bhikkhu sia perfetta per illustrare l’argomento. Qui trovate le altre.

Ciao Lameduck,

chi ti scrive è un neo-laureato in Medicina e Chirurgia all'Università di Bologna che ha trovato per caso il tuo blog in rete. Ti scrivo per farti riflettere su un problema che, nel nostro Paese, ha radici molto profonde ed estremamente difficili da eradicare.
Pensa che tutti parlano male dei medici, alcuni straparlano senza conoscere neanche gli argomenti dal punto di vista scientifico, eppure nessuno parla di quel sistema ben oliato che mette in circolazione medici incompetenti.
Tutti ci scandalizziamo per una povera ragazza morta di appendicite, ma non ci si domanda come mai un ragazzo che si laurea a 24 anni con il massimo dei voti e lode, e che si è fatto il sedere (per essere fini) per 6 anni, venga poi scavalcato da figli o parenti dei professori per entrare nelle scuole di specializzazione o superare i concorsi, perché, nonostante tutto l'impegno profuso per conseguire la laurea, ha un enorme difetto: quello di non contare nulla dal punto di vista "politico".
Sono il primo laureato della mia famiglia, i miei genitori hanno sostenuto fatiche non trascurabili per permettermi di studiare, e molto probabilmente passerà ancora molto tempo prima che possa ricambiare tutto l'affetto che mi hanno dato.
E questo perché sono circondato dai cosiddetti "figli di papà", gente che ha avuto una bella spintarella per raggiungere il 110 e che non dovrà fare nessuna fatica per centrare una specialità.
E il problema non sta tanto nei direttori di scuola o primari, sta anche in quei burocrati che cercano di regolamentare il nostro ingresso nel mondo del lavoro: pensa che, come molte categorie lavorative credo, prima di essere abilitati dobbiamo sostenere un esame di Stato, che per i medici consiste in una parte pratica (tirocinio) di 3 mesi presso specialisti (medicina interna, chirurgia generale, medico di base) ed in una parte scritta.
Questo esame dovrebbe selezionare quei medici che possono lavorare. Cioè quelli davvero preparati. Dovrebbe essere una specie di setaccio dove i "raccomandati" dovrebbero fermarsi...e invece cosa succede? Succede che ci sono molti medici accondiscendenti che non valutano per niente i loro tirocinanti, e si limitano a mettere il massimo dei voti alla fine del mese, senza sapere qual è il bagaglio di quel laureato. Oppure succede che 3 mesi prima della prova scritta (che consiste in 180 quiz a risposta multipla) il Ministero dell'Università renda pubblico l'archivio delle domande da cui verranno estratte quelle del compito, per permettere al laureato più "brocco" di impararsele a memoria e superare l'esame agevolmente.
Insomma, non ci lamentiamo se negli ospedali ci sono medici che non sanno fare una diagnosi, mentre i più meritevoli sono costretti a fuggire all'estero: siamo noi italiani che contribuiamo a questa situazione.
Ti auguro una buona giornata.

Emiliano

In effetti ne ho conosciuti di figli di medici affermati, per niente portati per la medicina, senza alcun fiuto per la diagnosi, senza lo spirito di sacrificio necessario per affrontare il mestiere di medico iscriversi all’Università perché è tradizione di famiglia e poi ereditare gli studi paterni tirando a campare e rilucendo di luce riflessa, facendo diagnosi che nulla hanno da invidiare al nostro dottor topo.
Non sarà così per tutti ma nella mia vita i migliori medici e ricercatori che ho conosciuto erano venuti tutti su dal niente, amando la professione per pura passione e impegnandosi con dedizione per i malati.
Forse in questo campo un po’ di sana meritocrazia non guasterebbe, come auspica Emiliano. Almeno per non ridursi come Dr. Mouse…

sabato 10 febbraio 2007

"Si ammazza troppo poco!" - L'altra faccia della memoria

E’ giustissimo il 10 febbraio ricordare le vittime delle foibe ma penso che ancora una volta si sia persa un’occasione (ahi, Presidente!) per fare ulteriore chiarezza e giustizia su quello che fu il mattatoio dei Balcani nella seconda guerra mondiale.
Al giusto riconoscimento alle vittime delle foibe si attende da sessant’anni che si affianchi quello per le vittime dell’aggressione italiana alla Jugoslavia. Non per fare il solito sporco gioco del bilancino bipartisan che vuole soppesare le vittime e schierarle da una parte e dall’altra, ma semplicemente per ricordare che se vi furono vittime dimenticate, altre continuano ad esserlo e giustizia vorrebbe che fossero ricordate tutte.

La campagna italiana (fascista) in Jugoslavia fu condotta con pugno di ferro da generali come Roatta e Robotti, volonterosi alleati di Hitler nel progetto di “germanizzazione” dei Balcani. Proprio a Robotti si deve la frase che ho messo nel titolo: “Si ammazza troppo poco!”, a commento di un fonogramma inviatogli dal Capo di Stato Maggiore Galli nel 1942 con il resoconto di un rastrellamento in zona Travna Gora.
All’Italia, come premio per l’impegno a fianco del Terzo Reich, furono assegnati i territori della provincia di Lubiana in Slovenia, il controllo del Regno di Croazia e il protettorato del Montenegro.
Alleati dei fascisti italiani nella repressione tra gli altri di serbi, rom, ebrei ed oppositori erano i feroci Ustascia croati il cui capo, il collezionista di occhi nemici Ante Pavelic secondo Curzio Malaparte, fuggì in Argentina impunito grazie alla rete della Via dei Topi gestita con la complicità del Vaticano, della quale ho parlato in un post precedente.

Durante l’occupazione italiana, la popolazione slovena fu sottoposta a deportazione in campi di concentramento in Jugoslavia (come il famigerato Arbe al quale si riferisce la foto) e anche in Italia per far posto alla colonizzazione fascista. Qui trovate un articolo sul campo di concentramento di Alatri e le foto (questo sito contiene altre testimonianza delle atrocità alle quale parteciparono gli italiani, con immagini estremamente crude).

Sui crimini di guerra italiani, di cui la Jugoslavia fu soltanto uno dei teatri oltre l’Africa Orientale e la Libia, permane una congiura del silenzio che può essere spiegata solo con i sordidi interessi della guerra fredda.
Invano il governo jugoslavo chiese per molti anni che i criminali di guerra italiani fossero estradati per essere giudicati. Per loro non vi fu mai alcuna Norimberga, perchè godettero sempre di protezioni politiche e diplomatiche. Non vi fu mai una discussione sui crimini di guerra italiani semplicemente perché si decise di farli scomparire e di inventare al loro posto la leggenda degli “italiani brava gente”.

Molti anni fa, ormai venti, la BBC realizzò un documentario, “Fascist Legacy”, avvalendosi della collaborazione di storici come Michael Palumbo, autore anche di un volume sui crimini di guerra italiani che mai passò le maglie della censura e rimase inedito.
Questo documentario diviso in due parti, una dedicata al teatro jugoslavo e l’altro a quello africano, è una visione illuminante per coloro che sono cresciuti con l’idea che l’italiano in guerra non ha mai fatto male ad una mosca. Vi si parla di orrori, di esecuzioni sommarie, di campi di concentramento come Arbe in Croazia, dove i vivi venivano lasciati morire di fame in condizioni igieniche spaventose e i morti venivano seppelliti a tre per ogni fossa.
E’ una visione che fa star male, perché ci si sente traditi, ci si vergogna non solo di ciò che è stato fatto da nostri connazionali, ma anche per l’impunità della quale hanno in seguito goduto.
Un’impunità che era probabilmente voluta un po’ da tutti, anche da coloro che per nascondere le proprie magagne hanno lasciato che su queste infamie calasse l'oblio. Fu Togliatti a firmare l'amnistia che diede un fenomenale colpo di spugna ai crimini fascisti. Tu lascia stare i miei e io lascio stare i tuoi, alla faccia dei morti. Se delle foibe non si è parlato per decenni nulla mi vieta di pensare che fosse dovuto anche a questo patto bipartisan del silenzio.

Tornando al documentario di Ken Kirby, fu acquistato e doppiato dalla RAI ma mai messo in onda. E’ stato presentato a mezzanotte da La7 un paio di anni fa o più, alla chetichella, e riproposto in seguito da History Channel nel pacchetto Sky. Avrei voluto proporvelo ma non l’ho trovato in rete.
In compenso in Internet si trovano molti documenti e materiali su quelle pagine oscure della nostra storia. Qui troverete un esauriente catalogo di articoli sulla campagna italiana nei Balcani, le foibe e il cover-up dei crimini italiani.

In questa strana memoria settoriale della storia dove, a seconda delle simpatie, le vittime possono essere ricordate o meno, spero che un giorno, oltre alle vittime delle foibe (tutte, non solo quelle italiane), si ricordino anche le altre.
I deportati sloveni, gli internati di uno dei campi di sterminio più terribili come Jasenovac, tomba di ebrei, musulmani, serbi e rom, gestito dai nostri alleati di allora, lo chiedono invano da sessantadue anni.

giovedì 8 febbraio 2007

Marco, che saliva sulla montagna


Marco Pantani era un controsenso. Nato sul mare, con il salino nelle narici e la libertà del gabbiano nel sangue, domava le montagne aguzze sputando fatica e gloria come nessun’altro dai tempi di Coppi.
Campioni così ne nascono solo due o tre in un secolo. Quando la salita diventava solo per gli dei lui gettava via la bandana e non ce n’era più per nessuno.
Ribelle fin da bambino, quasi indomabile, testardo, chiedetelo a mamma Tonina. Eppure capace di sacrifici disumani, come un samurai.

Nel 1995 alla Milano–Torino un assurdo incidente gli spezza una gamba. Lui lotta per tornare in sella ma nel 1997 ha un altro infortunio.
La voglia di vincere di questo romagnolo testa dura è troppo forte però. Libero come il mare e forte come la roccia.
1998: vince Giro e Tour, un mito. I francesi vanno giù di testa per Pantani' . Quando il pirata corre, il ciclismo torna a riempire i bar, i circoli e perfino le signore anziane guardano il Giro in tv, perché c’è Pantani.

Poi nel 1999 la montagna ingrata si vendica di Marco, di colui che ha osato sfidarla e l’ha umiliata e battuta.
A Madonna di Campiglio il sogno si spezza. I controlli erano annunciati, e poi non era un vero e proprio controllo antidoping, ma una campagna per la salute dei ciclisti approvata dagli stessi corridori. Quel maledetto ematocrito fuori di due stronzissimi punti. Lo rifanno poche ore dopo e i valori sono normali. Ma la carriera di Marco è stroncata.
I giornalisti erano già pronti davanti all’albergo fin dalla mattina presto, e sulle gazzette rosa e bianche gli daranno del “traditore”.
Per loro è un dopato, un drogato, uno che imbroglia per vincere, un impostore. Gettano su Pantani, sul più grande, tutto il marcio del ciclismo, hanno finalmente il loro capro espiatorio. Le condanne comminate sui giornali non hanno appello, sono cassazione.
Forse, e lo dicono in tanti, quella volta lo hanno semplicemente fottuto. Andava troppo forte, troppo per i nuovi campioni sui quali investire milioni di dollari.

Marco non regge alla vergogna, alle parole cattive, alle condanne senza processo, forse anche al senso di impotenza di fronte a qualcosa di troppo grosso che era più forte di lui e che gli si era messo contro.
Prova a ricominciare ma non è più lui. Gli offrono la roba: “dai, che poi ti senti meglio”, e paradossalmente ora diventa veramente un drogato, della sostanza più bastarda, la coca. Che prima ti fa sentire un dio, ti fa salire fino sulla cima e poi ti spezza i freni e ti manda giù a rotta di collo verso la depressione più nera.
Diventa paranoico, ha paura di tutti, e tutti lo lasciano solo come un cane. Lo troveranno in una camera d’albergo, morto, con la stanza a soqquadro, a San Valentino.
Gli avvoltoi diranno che Marco Pantani è morto facendosi di crack. Taceranno invece come sepolcri quando usciranno i risultati delle analisi autoptiche: “nessun uso di sostanze dopanti atte a modificare le prestazioni sportive per un lunghissimo lasso di tempo precedente la morte.”

L’anno prima, mi pare, il Giro passò per Faenza. Mi piazzai sul ponte di Corso Europa aspettando che arrivassero i ciclisti. Non riuscii a riconoscere nessuno, alla grande velocità alla quale andavano, a parte Marco e la sua bandana. Adesso, ogni volta che passo di lì penso: qui ci ho visto Pantani, una leggenda.

Cos’è ora il ciclismo senza di lui? C’è stato il grande momento di Lance Armstrong, che Marco aveva battuto a Courchevel. Anche lui è finito sotto accusa per doping, quello vero, ma si è ritirato in tempo e le cose scritte sui giornali sono state dimenticate in fretta, non scolpite sulla pietra come per Pantani.
Anche se si corre ancora, con il pirata è morto anche il ciclismo, e adesso le nonne quando comincia la tappa spengono la tv. Perché non c’è più Marco con le emozioni che ti dava e il cuore è stretto solo da una tristezza infinita.

lunedì 5 febbraio 2007

Lo spettacolo deve continuare?!

Ieri lo avevo definito, con una battuta, un baraccone con i suoi fenomeni.
Oggi il mondo del calcio, nella persona del suo presidente di Lega Matarrese, ha dimostrato di essere peggio di quei circhi ottocenteschi che non si facevano scrupolo di far soldi con i deformi, gli infelici e gli "uomini elefante" e di possederne lo stesso cinismo.

Non si erano ancora concluse le esequie del povero agente Raciti che Don Tonino si lanciava nelle seguenti affermazioni: "Lo spettacolo deve continuare, il calcio è un'industria che non può fermarsi, il morto fa parte del gioco" e via bestemmiando. Qui il file audio, per udire con le vostre orecchie.
Ricordiamoci che Matarrese, eletto al posto di Galliani dopo il terremoto di Calciopoli e il rinnovamento del "Liquidatore" Guido Rossi, sarebbe il nuovo che avanza. Nel senso che abbiamo tritato gli avanzi del bollito e abbiamo fatto le polpette. Vedrete che ci toccherà rimangiare anche Carraro, prima o poi.
Se non lo sapete, la famiglia Matarrese costruì Punta Perotti, l'ecomostro di Bari demolito l'anno scorso. Lui, Tonino, invece è ancora in piedi.

Tra le altre mostruosità a tre gambe udite a margine della tragedia di Catania, il pianto greco ieri sera al TG1 dei bancarellari che non avevano potuto fare affari di fronte agli stadi, il calcolo delle mancate entrate erariali per le schedine, e oggi il commento del TG2 che ha detto testualmente: "Ebbene, spiace dirlo ma tra queste persone arrestate c'è anche il figlio di un poliziotto, come giovani della cosiddetta Catania bene".
Già, ogni tanto tra tanti bimbi cosiddetti belli e sani, qualche cosiddetto mostro salta fuori, anche nelle cosiddette famiglie per bene. Lo dovrebbero sapere, i cosiddetti giornalisti.

Vignetta ispirata al film "Freaks" del 1932.

sabato 3 febbraio 2007

Ancora sangue sul calcio

Di fronte alla notizia della tragedia di Catania e a un giovane che è morto, ad una famiglia che è chiusa nella morsa del dolore più cocente e che nessuna parola detta anche con le migliori intenzioni può consolare, le banalità, le frasi di circostanza, il rammarico, lo sdegno, perfino la rabbia, tutto risulta di una profonda inadeguatezza.
E' una morte, quella dell’agente di polizia, che non è affatto assurda, come diciamo tentando di non guardare in faccia la realtà, ma che è stata cercata. Come in guerra, dove il nemico si uccide con cognizione di causa.

A margine di una partita di calcio, giocata di sera per esigenze televisive di business, nonostante il notorio parere contrario delle forze dell'ordine che giustamente sostengono che l'oscurità favorisce la delinquenza, si è scatenato per l’ennesima volta quel simulacro di guerra con morti veri che è la violenza negli stadi. Anzi fuori dagli stadi, così si combatte meglio. Un attacco in piena regola con tanto di bombe carta portate da casa, organizzato da un esercito multiforme che comprende ultras che per mestiere fanno i teppisti, ma si presentano come “tifosi di calcio”, che dovrebbe essere tutt’altra cosa, e da altri volonterosi che all'occorrenza sono sempre pronti a combattere, magari arruolati dalla malavita.

Sul coinvolgimento ormai storico degli ultras in questi incidenti sono stati scritti tomi su tomi. Oggi ho letto analisi molto sensate, come questa di Francesco, che sottoscrivo.
Il problema è che nessuno tra magistratura, polizia e mondo politico riesce ad impedire che le società di calcio allevino queste male piante e se ne facciano ricattare.
Ricordate il “derby del bambino morto” del 2004? Quel derby romano dove si diffuse la notizia della morte, prima di un bambino poi di un ragazzo per colpa delle forze dell’ordine e gli ultras scesero in campo a parlottare con Totti e compagni finchè la partita fu sospesa? Allora non si escluse che dietro al fatto (la notizia era per fortuna falsa) vi fosse un vero e proprio tentativo di ricatto da parte degli ultras alle due società romane. Poi non se ne è più parlato e oggi siamo di nuovo a lamentarci delle imprese del tifo violento organizzato.

Io approfondirei invece l’argomento, perché non bisogna sottovalutare né la ricattabilità delle società di calcio, che permettono (chissà perchè, ce lo siamo mai chiesti?) che al loro interno bivacchino dei delinquenti, né la possibilità che la violenza negli stadi possa essere infiltrata e utilizzata dalla malavita organizzata o anche dal terrorismo e dalla mafia e da qualunque altra forza destabilizzante come arma contro la società civile. Sono d’accordo con il pm Renato Papa che indaga sulla morte del povero agente Raciti quando afferma che: “bloccare i tornei significa darla vinta ai criminali”.

La risposta immediata è stata infatti questa: campionati sospesi fino a nuovo ordine, non deve più succedere, bisogna prendere provvedimenti, il calcio è morto.
Anche queste, scusate, sono sciocchezze di circostanza. Promesse da marinaio. Un baraccone che muove migliaia di miliardi non può essere fermato, nemmeno di fronte alla morte di un uomo. Altrimenti dovremmo mettere in discussione la nostra società, fondata sul motto "The show must go on".
Non chiamatemi cinica, ma vedrete che tra una settimana, al massimo due, anche questa tragedia episodio andrà a far compagnia alla morte di Paparelli, alla strage dell’Heysel e alle tante altre disgrazie accadute negli stadi, compresa l’ultima, quella del dirigente ucciso a calci solo qualche giorno fa e già sull’orlo del dimenticatoio.

Se non si è fatto nulla finora, perché cambiare avrebbe significato ledere certi interessi ed equilibri, come si può pensare che cambi tutto ora?
Se non si fa nulla contro la violenza, allo stadio si va sempre di meno. Meno gente va allo stadio più abbonamenti alla pay per view si fanno. Va bene, questa è una malignità, però basterebbe fare una sola cosa. Copiare la legge inglese e possibilmente adoperarsi in sede europea per estenderla su tutto il territorio continentale. Si entra allo stadio solo con biglietto nominale, pene severissime per i responsabili di violenze. E poi costringere le società a farsi carico della sicurezza negli stadi con appositi servizi d'ordine così da permettere alle forze dell'ordine di gestire l'esterno. Obbligarle a disfarsi delle frange violente che sui forum scrivono "non ne uscirete vivi".

E' tutto ciò che la politica deve fare. Altrimenti toccherà a noi. Si disertino gli stadi, si disdicano gli abbonamenti Sky, non si compri più la gazzetta rosa, tanto non si perde niente, si spengano le tv quando cominciano le trasmissioni sportive. Chissà che questo non smuova il baraccone e i suoi fenomeni.


venerdì 2 febbraio 2007

Ciccio qua, Ciccio là

«La Margherita è un partito centrista e profondamente riformista... Noi siamo liberali, democratici, popolari, socialisti, socialdemocratici, ambientalisti e questo me lo dice la mia esperienza personale frequentando i singoli aderenti della Margherita, non esaminando necessariamente le personalita' dei nostri vertici nazionali.»

Francesco Rutelli nasce sotto il segno dei Gemelli, caratterizzato da costante irrequietezza, in una famiglia borghese romana.
Il noto soprannome deriva da un episodio dei suoi primi difficili mesi di vita. La sorella maggiore, traumatizzata dal fatto di non aver mai ricevuto in dono il Cicciobello come le sue compagne di scuola, lo veste, lo sveste, lo pettina e gli fa ingurgitare litri d’acqua per fargli fare la pipì. Quando alla piccola peste finalmente una zia ricca regala l’agognato bamboccio, Francesco può crescere in pace e pensare al suo futuro.

Architetto mancato, forse spaventato dall'impossibilità di applicare l'ondivaghezza ai calcoli delle strutture in cemento armato, sceglie quasi naturalmente di dedicarsi alla politica.
Per motivi di tempo riassumerò solo l’ultima parte delle sue avventure in giro per i partiti dell'arco costituzionale.

Esordisce come cattolico ma poi svolta leggermente a sinistra per il Partito Radicale, dove si trattiene qualche anno e partecipa alle sue battaglie, come praticante, quindi sterza un po’ a destra per scegliere un partito dalle larghe vedute, i socialdemocratici.
Nei primi anni ‘90, svoltato ancora a sinistra con i Verdi, diventa ministro per l’Ambiente per un sol giorno, come le rose. Lasciati i Verdi, e salito momentaneamente sulle barricate di Tangentopoli, sembra momentaneamente accasarsi come sindaco di Roma ma poi partecipa al movimento dei sindaci. Non riesce a stare fermo.
Nel frattempo ha trovato la sua anima gemella, la Cicciobella Palombella, con la quale mette su famiglia.

Nel 2001 finalmente la grande occasione, è candidato premier per l’Ulivo. I suoi occhioni blu dominano i poster elettorali e bucano lo schermo televisivo. Un successo, tanto che Berlusconi stravince le elezioni.
Chiunque altro si sarebbe ritirato in cima a un monte a produrre il formaggio di malga ma Francesco no, è un moto perpetuo.
Nel 2002, come se niente fosse, ascoltando una canzone di Cocciante ha l’illuminazione, fondare un grande partito riformista, di centro ma anche di sinistra che all’occorrenza strizzi l’occhio alla destra. Insomma il partito perfetto, che chiama Margherita, in onore del suo motto da eterno indeciso “m’ama, non m’ama, m’ama…”.

Attualmente sta lavorando alla costruzione del Partito Democratico e contemporaneamente alla distruzione totale della sinistra.
A questo punto Crepet direbbe che questi sono atti mancati dell’architetto mancato in lui. Insomma, braccia rubate all’architettura.