Il 18 febbraio del 2007 su "Libero" esce un articolo firmato con lo pseudonimo Dreyfus a commento di un fatto di cronaca accaduto a Torino. Una ragazzina minorenne, accompagnata dalla madre, si era rivolta al giudice tutelare per ottenere il consenso all'interruzione della gravidanza, visto che non voleva far sapere al padre - separato dalla madre - del suo stato.
L'articolo di Libero riportava, tra proclami ferocemente antiabortisti perfettamente legittimi trattandosi di libera espressione del pensiero dell'autore, almeno quattro circostanze false relative ai fatti, come l'affermazione che il giudice avrebbe obbligato la minore ad abortire quando invece dagli atti e dalle successive notizie di stampa risultava che la ragazzina aveva compiuto la sua scelta in piena autonomia.
Di conseguenza, il giudice chiamato in causa dall'articolo di Libero si riteneva diffamato a mezzo stampa e ne denunciava l'allora direttore, Alessandro Sallusti, contestandogli l'omesso controllo, visto che l'articolo non era firmato da lui direttamente ma era stato comunque pubblicato sotto la sua responsabilità.
Di conseguenza, il giudice chiamato in causa dall'articolo di Libero si riteneva diffamato a mezzo stampa e ne denunciava l'allora direttore, Alessandro Sallusti, contestandogli l'omesso controllo, visto che l'articolo non era firmato da lui direttamente ma era stato comunque pubblicato sotto la sua responsabilità.
Il 26 settembre 2012 la sentenza della Corte d'Appello ha condannato il direttore Sallusti alla pena di un anno e due mesi di carcere per diffamazione, pena sospesa secondo i termini di legge.
In una nota successiva al clamore mediatico e politico suscitato dalla sentenza, la Corte di Cassazione ha sottolineato che la condanna non si riferisce ad un presunto reato d'opinione - come riferito erroneamente dalla maggioranza dei mezzi di informazione - ma alla circostanza che il direttore Sallusti aveva pubblicato notizie false riguardo al fatto in oggetto, sotto la sua responsabilità.
Il 27 settembre, durante una discussione alla Camera, l'on. Renato Farina - già condannato per la pubblicazione di un falso dossier dei servizi segreti e per favoreggiamento nel caso Abu Omar - ha rivendicato la paternità dell'articolo incriminato pubblicato da Libero sotto lo pseudonimo Dreyfus (che ricorda il nome del tenente colonnello dell'esercito francese condannato per tradimento nel 1895) ed ha chiesto clemenza per il direttore Sallusti e la revisione del processo.
Fin qui i fatti, nella loro banale semplicità. Ora comincia la parte interessante relativa a come i fatti sono stati interpretati, distorti, rimaneggiati ed utilizzati in maniera capziosa in questo paese sempre più immaginario e in preda alle visioni provocate dai funghi allucinogeni della propaganda.
La notizia della condanna di Sallusti è stata riportata quasi unanimemente dalla politica e dall'informazione mainstream come un caso di attacco alla libertà di espressione e di stampa.
Il nocciolo della questione, ovvero la pubblicazione da parte di un direttore responsabile di un FALSO ( fatto che costituisce reato), per giunta scritto da uno che aveva dovuto autoradiarsi dall'albo dei giornalisti a causa dei falsi già pubblicati per conto del SISMI, è tralasciato o accennato di sfuggita, come se non avesse alcuna importanza. Esemplari, in questo senso, questi due articoli di Repubblica.
Si potrebbe parlare di un caso di condizionamento operante a livello collettivo, volendo ragionare in termini pavloviani. Sono state pronunciate alcune parole stimolo: ad esempio galera e libertà di stampa (quest'ultima usata volutamente da qualcuno in maniera capziosa) e tutti hanno risposto con una specie di riflesso automatico. La propaganda ha creato un'illusione percettiva, una nube di fumo attorno ad un fatto altrimenti di una semplicità e chiarezza sconcertante. Illusione nella quale sono caduti in molti.
Perfino Marco Travaglio ha scritto queste parole:
Viviamo in un mondo che già utilizza la propaganda come arma di penetrazione nelle coscienze, che crea illusioni e prestigi per sviare l'attenzione dai fatti, che utilizza come unico linguaggio omologante la menzogna, quella goebbelsianamente più grossa di tutte, e vuole sostituire, idolatrandolo come un vitello d'oro, il mito alla storia. E' per questo che, per il cittadino, fare informazione nel senso anche di ricostruire la realtà da un cumulo di menzogne rivelando gli omissis dei media ufficiali, può diventare il modo più costruttivo ed efficace di fare politica ed opposizione.
In una nota successiva al clamore mediatico e politico suscitato dalla sentenza, la Corte di Cassazione ha sottolineato che la condanna non si riferisce ad un presunto reato d'opinione - come riferito erroneamente dalla maggioranza dei mezzi di informazione - ma alla circostanza che il direttore Sallusti aveva pubblicato notizie false riguardo al fatto in oggetto, sotto la sua responsabilità.
Il 27 settembre, durante una discussione alla Camera, l'on. Renato Farina - già condannato per la pubblicazione di un falso dossier dei servizi segreti e per favoreggiamento nel caso Abu Omar - ha rivendicato la paternità dell'articolo incriminato pubblicato da Libero sotto lo pseudonimo Dreyfus (che ricorda il nome del tenente colonnello dell'esercito francese condannato per tradimento nel 1895) ed ha chiesto clemenza per il direttore Sallusti e la revisione del processo.
Fin qui i fatti, nella loro banale semplicità. Ora comincia la parte interessante relativa a come i fatti sono stati interpretati, distorti, rimaneggiati ed utilizzati in maniera capziosa in questo paese sempre più immaginario e in preda alle visioni provocate dai funghi allucinogeni della propaganda.
La notizia della condanna di Sallusti è stata riportata quasi unanimemente dalla politica e dall'informazione mainstream come un caso di attacco alla libertà di espressione e di stampa.
Il nocciolo della questione, ovvero la pubblicazione da parte di un direttore responsabile di un FALSO ( fatto che costituisce reato), per giunta scritto da uno che aveva dovuto autoradiarsi dall'albo dei giornalisti a causa dei falsi già pubblicati per conto del SISMI, è tralasciato o accennato di sfuggita, come se non avesse alcuna importanza. Esemplari, in questo senso, questi due articoli di Repubblica.
Si potrebbe parlare di un caso di condizionamento operante a livello collettivo, volendo ragionare in termini pavloviani. Sono state pronunciate alcune parole stimolo: ad esempio galera e libertà di stampa (quest'ultima usata volutamente da qualcuno in maniera capziosa) e tutti hanno risposto con una specie di riflesso automatico. La propaganda ha creato un'illusione percettiva, una nube di fumo attorno ad un fatto altrimenti di una semplicità e chiarezza sconcertante. Illusione nella quale sono caduti in molti.
Perfino Marco Travaglio ha scritto queste parole:
"Non so cosa fosse scritto in quell’articolo, ma non dubito che fosse diffamatorio, vista la normale linea Sallusti. Però ora non m’interessa, perché ciò che conta è il principio."
Ecco, peccato che il principio, in questo caso, non sia affatto la libertà di stampa o la libertà di esprimere opinioni o il fatto che i giornalisti possano andare in galera ma il reato di falso commesso senza ombra di dubbio da Sallusti. Come recita la nota della Cassazione, altri articoli di stampa avevano chiarito nei giorni successivi al fatto di Torino come non vi fosse stata alcuna coercizione nei riguardi della minorenne ad abortire, eppure non era arrivata da parte di Libero alcuna rettifica all'invettiva di, adesso lo sappiamo, Renato Farina nei confronti del giudice. Invettiva contenente, en passant, l'invocazione della pena di morte per gli abortisti. Una richiesta sempre curiosa se proviene da chi vuole difendere la vita. Ma si sa che i crociati erano dei bei peperini.
Anche Massimo Fini, che polemizza con Travaglio sempre sul Foglio, escludendo la solidarietà a Sallusti in nome del principio della legge uguale per tutti, compresi i giornalisti, equivoca e neglige il vero senso della vicenza, ovvero il problema della pubblicazione di un FALSO su un giornale. Fatto che dovrebbe essere sempre considerato gravissimo perché scrivere il falso in cronaca significa alterare la realtà.
Siamo tutti d'accordo che il carcere è una pena obsoleta e disumana ma, se parliamo di principio, esso vale per tutti i detenuti, compresi i disgraziati che non possono permettersi l'avvocato d'alto bordo e non usufruiscono, per esclusione di classe e di casta, dei megafoni della difesa corporativistica di categoria. Possiamo dire che esiste sempre la possibilità di modificare il tipo di pena da comminare ma il reato commesso rimane e, se riguarda questioni fondamentali di convivenza civile, deve rimanere.
Vorrei dire, a questo punto, che le ricostruzioni più obiettive della vicenda Sallusti, le più chiare e focalizzanti la questione fondamentale del FALSO, le ho trovate solo in Rete. In quella Rete che, secondo coloro che in questi giorni hanno salivato a comando come i cagnolini di Pavlov, è il regno della cospirazione, della falsità e della bufala, oppure dell'opinionismo pressapochista.
Due articoli descrivono i fatti e offrono un'interpretazione quasi scientifica della reazione patologia dei media ai fatti. Mi piace citarli come i più illuminanti che ho trovato:
Alessandro Robecchi, "Due o tre cosucce sul caso del martire Sallusti. E perché non è il caso di piangere", Micromega online, 26 settembre 2012.
Sergio Di Cori Modigliani, "La cupola mediatica e il caso Sallusti", dal blog Libero Pensiero.
Mentre i giornali ripetevano a pappagallo la litania della minaccia alla libertà di espressione, si muovevano gli alti piani del governo, compreso l'attico, e la politica marcia - con quella che standogli accanto comincia pure lei a marcire - non si faceva sfuggire l'ennesima occasione per colpire la Magistratura e le leggi dello Stato, la Rete è andata per prima cosa a cercare l'articolo originale (bastava cercarlo nell'Archivio della Rassegna Stampa della Camera: Dreyfus, "Il giudice ordina l'aborto. La legge più forte della vita", Libero, 27-2-2007). Poi ha confrontato ed incrociato le fonti, spulciato tra gli articoli che ricostruivano come si erano svolti i fatti, si è rinfrescata la memoria sulle imprese dell'Agente Betulla e di Pio Pompa, scopriva la legge numero 801 del 1977 che fa divieto ai giornalisti professionisti di intrattenere rapporti con i Servizi Segreti, per giunta a pagamento, e infine ha riconsegnato una versione più obiettiva della questione. La più obiettiva in assoluto. Quella che una volta avrebbero sentito il dovere di scrivere i giornalisti d'inchiesta.
Cosa ci insegna questo episodio, questo caso esemplare di psicopatologia sociale? Qualcosa di estremamente preoccupante. Questa negazione del cuore del problema, della realtà fattuale in favore della realtà interpretativa, capziosa e anch'essa falsa, è un fatto gravissimo, patologico, che deve farci riflettere sulla pericolosità della propaganda e sulla condizione di debolezza e condizionamento di coloro che ormai la subiscono da decenni. E' inutile dire che, se passasse il principio che qualunque cosa scriva un giornalista, comprese le balle più clamorose, è da considerarsi libertà di stampa, un giorno potremmo veramente trovarci in una realtà virtuale peggiore della Matrice dei film di fantascienza.
Viviamo in un mondo che già utilizza la propaganda come arma di penetrazione nelle coscienze, che crea illusioni e prestigi per sviare l'attenzione dai fatti, che utilizza come unico linguaggio omologante la menzogna, quella goebbelsianamente più grossa di tutte, e vuole sostituire, idolatrandolo come un vitello d'oro, il mito alla storia. E' per questo che, per il cittadino, fare informazione nel senso anche di ricostruire la realtà da un cumulo di menzogne rivelando gli omissis dei media ufficiali, può diventare il modo più costruttivo ed efficace di fare politica ed opposizione.
La rete non perdona. Un utente di FB pubblica la foto di un ritaglio dell'intervista a Renato Farina di Tommaso Labate su "Pubblico". Un grazie a Dario Ballini. |