lunedì 28 febbraio 2011

Scuola privé


Nella vita bisogna provare tutto, anche le scuole private. Ne frequentai una, a vent'anni, per corrispondenti e interpreti. Scuola a rigida conduzione famigliare, nel senso che il marito interpretava con sussiego da maggiordomo inglese fallito la parte del preside, la moglie stava in segreteria ed alla cassa e le figlie erano arruolate come insegnanti per finta delle materie meno impegnative. Le altre docenti, quelle vere, erano tutte signore ben oltre l'età pensionabile e già rottamate, alla Renzi, dalla scuola pubblica. Una di esse, vicina addirittura agli ottant'anni, era una feldmarescialla dal righello facile. Ebbene si, menava. Soprattutto i maschi più riottosi, a manrovescio e con l'anellone da sei etti al dito.
La professoressa di inglese era un'americana ossessionata dai comunisti, una specie di zia di Luttwak, che noi ci divertivamo a sfottere senza pietà quando iniziava la sua perorazione quotidiana in favore della politica di Ronald Reagan.
Tutto l'istituto sapeva di vecchio, di conservazione sotto formalina di tradizioni culturali stracotte e desuete. 
Anche le attrezzature erano ottocentesche. Ricordo che, si parla dei primissimi anni ottanta, nonostante fossero già ampiamente diffuse negli uffici le macchine per scrivere elettriche, noi studiavamo dattilografia su delle Remington anteguerra.

Eppure, secondo la leggenda, la scuola privata dovrebbe offrire una preparazione migliore e più moderna, con insegnanti qualificati, in un ambiente sano e sicuro.
Dalla mia esperienza personale posso dire di non aver imparato un'anticchia di più di quello che avrei appreso frequentando un banalissimo liceo linguistico, con l'aggravante che, nella scuola privata, c'era una retta da pagare.
Per il resto, conosco donne zoccolissime che hanno studiato dalle suore, uomini traumatizzati dalle attenzioni degli insegnanti in prestigiosi collegi maschili retti dai preti ed ambosessi caduti nelle grinfie della droga nonostante la scuola decomunistizzata e frequentata da pari grado di ricchezza.

La scuola privata non è migliore di quella pubblica, serve solo come alibi ai ricchi per illudersi che i loro figli crescano all'insegna dei loro principi rimanendo dentro un circolo chiuso. Essi credono che i loro cuccioli di miliardario possano traviarsi frequentando i figli degli operai, per questo ci tengono tanto alle loro parificate con i diplomi che non valgono un cazzo. Tanto ai cuccioli di miliardario e di trota il diploma non serve, visto che il posto fisso ce l'hanno, spesso e volentieri, per diritto di nascita e di censo e non certo per merito. 
Ecco perché alle scuole private non viene richiesto di fornire una formazione culturale di alto livello. Devono solo mantenere ben divaricata la forbice.

Non a caso, il governo più classista degli ultimi 150 anni ha un debole per i diplomifici un tanto al chilo come il CEPU, per le laureate all'Università Bocchini, per una scuola più privé che privata, dove si studiano discipline altamente specialistiche come l'igiene dentale. Tutto con l'idea che, pagando e stando lontano dai comunisti, si diventi automaticamente degli Einstein. Un governo che ha messo al vertice del Ministero della Distruzione la Gelmini. Quella che, non trovandosi a proprio agio né alla Bocconi e tanto meno alla Normale, è andata a  laurearsi a Reggio Calabria. Chissà perché. Parafrasando un slogan del sessantotto, questa è la somaraggine al potere.

La minchiata di regime più galattica, riguardo all'istruzione, è però quella che vorrebbe le famiglie italiane obbligate dai comunisti  a mandare i figli alla scuola dei soviet senza poter scegliere liberamente di affidare i propri pargoli alle amorevoli cure della privata.
Detto che, potendo pagare, uno può mandare i figli dove gli pare e che quindi il problema non esiste; detto che non manderei i miei figli a studiare dai preti come non li manderei a nuotare spalmati di maionese in una vasca di piranhas, vorrei tranquillizzare Berlusconi ed invitarlo a smetterla di pensare che le scuole private e religiose siano ideologicamente più sicure. Stalin studiò in seminario. 
Paradossalmente e per ironia della sorte, si hanno maggiori probabilità di diventare comunisti non andando alla statale "Sandro Pertini", ma frequentando le Orsoline ed i Maristi ed avendo avuto una professoressa reaganiana. Non per cattiveria ma per reazione.

giovedì 24 febbraio 2011

Chi ha incastrato Gianfranco Fini?


Vista la difficoltà nel portare a piena maturazione il progetto "Futuro e Libertà", con un Fini che sembra dover affrontare  un percorso più arduo di un Mortirolo scalato su una bicicletta dalle ruote sgonfie, non riesco a togliermi dalla mente un sospetto.
Ripensando al fuori onda delle bombe atomiche, risalente all'estate scorsa,  non sarà che qualcuno ha giocato un brutto tiro a Gianfranco Fini, facendogli credere che qualcun'altro fosse finalmente pronto a parlare e che di conseguenza Berlusconi  avesse le orge contate per questioni penali ben più gravi di una concussione per coprire il reato compiuto con la minorenne e quindi la transizione di leadership al governo fosse questione imminente?

Questo qualcuno potrebbe essersi presentato come amico fidato e volonteroso sponsor della nascita di una destra nuova, moderna e finalmente presentabile in Italia, avrebbe fatto uscire allo scoperto Fini rassicurandolo dell'appoggio di amici importanti, quelli che contano e fanno muovere ogni foglia,  ma poi, al dunque, lo avrebbe lasciato in balìa delle banderuole arruolate nella nuova formazione (possibili infiltrati, figuranti e comparse con l'ordine di tirarsi fuori al momento giusto) e di una stampa goebbelsiana asservita al padrone, in grado di fabbricare scandali dalla consistenza dello zucchero filato ma pesanti come il piombo sulle varie case di Montecarlo.

E' ovvio che una nuova destra al posto di quella da casino di Berlusconi non è solo Gianfranco Fini ma tante persone che devono mettersi insieme anche nella società civile per costruirla o tirarla fuori dai nascondigli, ma in una realtà schiava dell'immagine come la nostra, un leader, un punto di riferimento, ci vuole. Ecco perché i mestatori all'opera ci tengono tanto a distruggere la leadership di Fini.
In fondo, dimostrare a reti e giornali unificati che Fini è un leader dai piedi d'argilla, che non ha abbastanza polso, come quei professori che non riescono a tenere tranquilla la classe e che si fanno disegnare i pupazzetti sulla schiena  dai ragazzini, sarebbe il metodo perfetto per "far fuori" l'unico uomo politico in grado di sostituire  Berlusconi alla guida del centrodestra per sempre e senza farlo rimpiangere. Almeno in un paese normale.

Perché ho questo sospetto del tranello giocato a Gianfranco? Perché questi amici importanti, spesso, alle destre moderne e democratiche ed alle transizioni morbide all'insegna della tutela ed al ristabilimento della legalità, dopo le peggiori dittature o pseudo tali, comprese queste nuove versioni oligarchico-mafiose, preferiscono altro. Magari una più comoda, per loro, continuità con il passato.
Li avete sentiti, del resto. "Berlusconi è un pagliaccio ma non abbiamo mai avuto tanti vantaggi come con lui al governo." Direbbe Totò: "Berlusconi è come la serva, serve". Una serva imperiale.

lunedì 14 febbraio 2011

Milione più, milione meno


E' senz'altro una bella soddisfazione avere visto finalmente così tante persone manifestare contro il peggior presdelcons degli ultimi 150 anni. Bellissima anche la sua reazione da "come si permettono di non adorarmi".
Non illudiamoci però di avere vinto la guerra dopo aver portato a casa questa battaglia, pensando che i berlusconidi rettiliani siano solo quel centinaio di figuranti, manifestanti a progetto e comparse con l'orologio raccattate dalla Santanché per la sua adunata sciurettosa dell'altro giorno. Quelli che "Silvio-resisti" non vanno in piazza per definizione, nemmeno se è per Silvio. Se ne stanno chiusi in casa a guardare la tv lasciandosi scucchiaiare il cervello dalla propaganda. Ricordiamo che ogni sera sei milioni di persone hanno lo stomaco di guardare il TG5 di Mediaset e quasi altrettanti il TG1 di Mediaset2.
C'era un bellissimo cartello alla manifestazione, portato da una ragazza con il berretto viola: "Bastava non votarlo". Senza dubbio lo slogan migliore della giornata. Una tremenda verità. Peccato che milioni di persone lo abbiano votato e che non siano morte di peste al lazzaretto ma vivano ancora in mezzo a noi, pronte a rivotarlo, se necessario.

Riferito della parte positiva della manifestazione, non posso nascondere che alcuni aspetti di essa non mi hanno convinto ed altri mi hanno dato proprio fastidio.

Per iniziare, il non aver saputo, da parte delle organizzatrici, evitare la retorica e il vittimismo, che in questi casi sono sempre in agguato e che sono, secondo me, inadeguati all'oggetto del contestare. L'averla buttata sul tragico e sul depressivo, nonostante nessuna escort sia morta di sevizie ad Arcore, con i riferimenti al "se non ora quando" di Primo Levi ed alla sciarpa bianca delle Madri di Plaza de Mayo  è vagamente offensivo per l'accostamento tra vere tragedie come quella dei desaparecidos e la Shoah, e la ridicola farsa degli ultimi giorni di Pompetta.
Se Berlusconi ormai sale sul palco per fare chicchirichì vestito da pagliaccio dobbiamo solo sghignazzargli in faccia senza pietà e tirargli uova marce. Non merita altro. Tantomeno la nostra seriosa indignazione. Gli si sta dando troppa importanza, all'ometto, parlando di dignità offesa. Soprattutto perché la dignità offesa è quella di un popolo intero senza distinzioni di genere e non solo delle donne. Meglio lo sberleffo e la satira, i famosi cannoni sparaneve caricati a merda, vera o simbolica che sia. Per uno che si prende tragicamente sul serio come lui coprirlo di ridicolo è la cosa peggiore che gli si possa fare. Altrimenti è solo primadonnismo, voler rubare la scena. 

In questo senso non trovo assolutamente accettabile, anzi francamente offensivo, il messaggio femminista secondo il quale non c'è differenza tra donne oneste e disoneste. E, siccome il livellamento è verso il basso, praticamente saremmo tutte puttane. Eh no, care, adesso non esageriamo.
Non mi piacciono il martirologio di genere e la santificazione in blocco delle donne in quanto tali, vista la marea di stronze e disoneste che ci sono in giro. Non mi va l'idea che la colpa del puttanaio sia solo dell'uomo e della domanda perché è una fallacia.
Ad Arcore, come in tutti i luoghi dove si promettono guadagni facili senza saper fare niente, c'erano ragazze, perfettamente consapevoli e consenzienti, in fila con il numeretto per andare a fare pompini a 4000 euro l'uno a un vecchio che poteva esser loro nonno. Nessuna di loro era una morta di fame.
Lavorare è più faticoso che scopare e il fatto che tante donne scelgano la via meno faticosa non ne fa per questo automaticamente delle povere martiri. Senza contare che il loro cattivo esempio danneggia, quello si, la dignità della maggioranza delle donne che invece vive giornalmente la fatica di un lavoro onesto da 1000 euro al mese e che mai accetterebbe la vendita di sé per denaro. Etica, non moralismo. Perchè se siamo tutte puttane allora hanno ragione gli uomini a provarci sempre, anche sul posto di lavoro.
Rileggetevi, prima di gridare "siamo tutte Ruby", le intercettazioni di queste zoccole che si sono fatte le case a colpi di natica, alla faccia dei lavoratori in cassa integrazione e dei precari, che avevano il coraggio di schifare 2000 euro in più di stipendio al mese (pagato da noi) perché "cosa vuoi che siano". Un bel "vergognatevi" anche alle Minetti e compagnia bella ma marcia non ci sarebbe stato male, neh sorelle?

In ultimo mi ha dato fastidio l'aver utilizzato, per l'ennesima volta, la sparata ad effetto "siamo un milione", più adatta ad imbonitori come Denis Verdini ed alle adunate sediziose del nano. Siamo seri, al milione in piazza non ci crede più nessuno nemmeno se si trattasse della Tien An Men di Pechino ed è sbagliato ogni volta esagerare con le cifre perché rischiamo, un giorno o l'altro, di dover considerare più attendibili le Questure.

sabato 12 febbraio 2011

Nato il 17 marzo

Il logo suggerisce che dal 2011 in poi dobbiamo andare "avanti veloce"?

Com'è difficile, essendo italiani, parlare di patria. Non si sa da che parte cominciare. Le idee si accavallano e si parlano sopra, in un gran casino. Oppure non ci sono proprio idee, il vuoto assoluto.
Sembra di essere all'esame di maturità di fronte ad un tema che il nostro cervello non si aspettava e che non si decide ad elaborare. E' una parte del testo che avevi saltato a pié pari perché figurati se esce proprio quello.

Eppure per gli altri popoli è così facile descrivere il concetto di patria. Prendi gli americani o i francesi, perfino quelli che consideriamo con sussiego come troppo meridionali: egiziani, tunisini, algerini. Ti riempirebbero dieci fogli protocollo sull'argomento e alla fine non riusciresti nemmeno a leggere tutte le parole perché i fogli sarebbero macchiati dalle lacrime di commozione che provoca loro il concetto.

Dunque, facciamo uno sforzo, possiamo farcela anche noi. L'Italia sta per compiere 150 anni come nazione, bisogna parlarne, anche se nessuno sembra voler festeggiare la ricorrenza, a cominciare dalla nostra classe dirigente. Su questo ritorneremo più avanti.
La patria, vediamo. "Fratelli (coltelli) d'Italia" è il nostro inno, il tricolore la nostra bandiera. Nostri? Nostri di chi? Di noi italiani. E chi sono gli italiani?

Forse ci manca il file di sistema del patriottismo perché siamo un popolo troppo giovane? Può essere. Centocinquant'anni di unità nazionale non sono poi tanti. 
Se non siamo patriottici è perché non siamo tutti uguali, non siamo un popolo omogeneo, ci si giustifica. Vi sono differenze tra Nord e Sud, tra Bergamo di sopra e di sotto, tra la Contrada dell'Oca e quella della Tartuca. Fai dieci chilometri e il tuo stesso dialetto diventa incomprensibile. 
Non è così. E' solo un'illusione, quella di essere diversi. Siamo un popolo di bastardi, geneticamente e culturalmente. Ma proprio perché siamo tutti bastardi, siamo tutti uguali. Compris?
Infatti, se vai all'estero ti riconoscono subito. Hai voglia di specificare che sei genovese, marchigiano, viterbese. Per loro sei ITALIANO, ovvero quella sfilza di stereotipi che ti marchiano a fuoco e che si possono riassumere nell'orrenda triade: mafia, spaghetti e mandolino. Curiosamente, proprio tra gli italiani all'estero, costretti ad unificarsi sotto un unico cliché, è forte il patriottismo. Qui in Italia invece, emergono le differenze e i distinguo, ognuno di noi fa provincia per conto suo.

E' per questo che, se li intendiamo come popolo con un'identità nazionale, gli italiani sembrano materializzarsi  solo in occasione dei Mondiali di Calcio (solo però se li vinciamo). 
La patria, allora, è andare a fare i caroselli per le strade con il bandierone? Beh, non direi. Ci vogliono situazioni più serie per misurare il grado di patriottismo di un popolo. Per esempio la guerra, quando devi morire per la patria combattendo o per difenderla da un invasore.
Ecco il primo problema. Noi consideriamo la guerra un'opportunità di carriera e di solito, cominciandola da uno schieramento, non sai mai dalla parte di chi la finiremo. La sovranità nazionale, del resto, non ci interessa più di tanto. Sono più di sessant'anni che viviamo benissimo senza e ormai forse non sapremo più che farcene. Ci siamo abituati a camminare su una gamba sola.

La politica, dal canto suo, ha fatto di tutto per distruggere, in questi 150 anni, il concetto di patria. Il fascismo era riuscito ad imporcene, a calci in culo, una versione dispotica e tragicomicamente sborona che non poteva che finire i suoi giorni nella polvere e nella vergogna.
Con la Resistenza abbiamo combattuto per la libertà dalla dittatura di una nazione intera, dell'Italia, non solo della Repubblica del Nord o del Sud ma  la sinistra, finita l'emergenza della guerra civile, ha preso a deridere il concetto di patria, preferendo ad esso l'internazionalismo socialista e lasciando in eredità il sentimento nazionale ai residuati di fascismo, commettendo  un gravissimo errore.
Il regime socialdemocristiano del lungo dopoguerra, bisogna riconoscerglielo, non si sarebbe mai sognato di mettere in discussione l'unità del paese ma non ha fatto nulla per sviluppare un vero sentimento nazionale positivo e democratico, lasciando che emergessero e prendessero piede le leggende della Padania, del Dio Po', della secessione del Nord e dell'indipendentismo del Sud.
La classe dirigente attuale sta completando la demolizione controllata del senso di unità nazionale comunemente detto, ovunque nel mondo, amor di patria.

Da una parte c'è l'internazionalismo imprenditoriale per il quale Italia o Serbia purché se magna, inteso come va' dove ti porta il profitto. Per loro l'Italia vale solo se è come la serva, cioè se serve. Altrimenti se ne vanno, delocalizzano, fottendosene dei destini dei lavoratori italiani. Patriottismo degli industriali italiani? Non pervenuto.
Ecco quindi la Marcegaglia strepitare perché il 17 marzo, giorno in cui si festeggiano i 150 anni dall'unificazione di regnucoli e granducati in Regno d'Italia, visto che c'è la crisi "ohm!", non bisogna astenersi dal lavoro. Capirai, come se un giorno facesse vendere più tubi a lei e più Punto a Marchionne.
Marchionne che non si sognerebbe di certo di costringere i lavoratori americani a lavorare il 4 luglio perché prenderebbe delle sonore cinghiate da Obama in giù , fino all'ultimo discendente di Toro Seduto.
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Anche Montezemolo dice che bisognerebbe lavorare ma propone di eliminare la Befana, ormai già trascorsa, al posto della festa del 17 marzo che, comunque e se non sbaglio, sarebbe celebrata solo quest'anno. Beh, lui ci ha provato.
In realtà agli imprenditori viene il bruciaculo al pensiero di dover retribuire la giornata festiva ai lavoratori. Tutto qui.

In ambito governativo ci sono ovviamente i leghisti, strutturalmente contrari a festeggiare una ricorrenza italiana e non padana come la sagra della polenta taragna, a loro sicuramente più cara. Fedeli al diktat del "va' a laura'", vogliono che il 17 marzo si lavori comunque.
Anche la Gelmini difende l'apertura coatta delle scuole nel giorno di festa. Chissà come saranno contenti i ragazzi.
Sempre dalle parti degli italiani per forza, ecco le minoranze come i sudtirolesi  rifiutarsi di partecipare alle celebrazioni ufficiali dei 150 anni.
Notoriamente considerati da Vienna come i terroni dell'Austria, e nonostante ricevano come provincia autonoma dallo Stato Italiano benefici fiscali che il resto d'Italia si sogna, compreso il ritorno a livello locale del 90% delle tasse pagate, si sono preoccupati recentemente di salvare il governo Berlusconi con il loro voto, vendendosi l'orifizio come tutti gli altri. Sarebbe gradito un loro silenzio sulle questioni italiane per i prossimi, diciamo, mille anni.
A questo antipatriottismo legaiolo e kartoffeln, più qualche smania irredentista sicula e in attesa del risveglio dell'orgoglio etrusco e di quello villanoviano, si oppongono ovviamente i fascisti-su-marte alla La Russa e anche la ministrina Meloni, povera cocca, ma sono voci troppo flebili per poter essere ascoltate.
L'opposizione, del resto, impegnata com'è a trovare dieci milioni di firme per mandare via Berlusconi, non si è ancora pronunciata. A proposito, frega a qualcuno di ciò che eventualmente potrebbe dire Veltroni a riguardo?

Nemmeno Berlusconi, che pure è giustificato dagli enormi problemi che deve affrontare in questi giorni, ha ancora proferito parola sulla ricorrenza del 17 marzo. Penso che possiamo comunque intuire il suo pensiero. Il 17 marzo non  bisogna astenersi dal trombare.

venerdì 4 febbraio 2011

L'Italia vista dalla Luna


Allora, in soldoni, la situazione vista dallo Spazio è la seguente. L'Italia è occupata dalla Padania e dal Regno delle Tre Mafie. Prigioniera nelle mani di un vecchio postinfartuato cerebrale fissato sull'endogamia fiscale il quale, per ottenerla a tutti i costi perché se no muore, si è alleato con un altro vecchio pregiudicato incallito che si è messo in testa di farla franca su tutti i fronti processuali che lo riguardano.
I due assieme intendono calpestare qualsiasi cosa si pari di fronte alla loro volontà scellerata, soprattutto la Costituzione repubblicana che non è roba loro ma Nostra.

Sembra proprio la messa in pratica di quel famigerato patto, caldeggiato dagli ideologi della Lega, che intendeva spaccare l'Italia in due e vietnamizzarla. Con il Nord consegnato ad una classe politica predona, avida, ignorante, incapace e dal cervello infarcito di una polenta velenosa fatta di nazionalismo fantastico, razzismo e paganesimo di ritorno e  il Sud in balìa della criminalità organizzata mafiosa e dei suoi loschi traffici. Patto che forse fu veramente firmato sui cadaveri ancora caldi di Falcone e Borsellino. Stipulato sotto gli occhi di una cinica realpolitik imperiale che, in cambio di qualche beneficio in termini di "divide et impera", se ne fregava come al solito dei destini di una delle sue provincie.
E forse i padani taragni non avevano calcolato che il Regno delle Tre Mafie si sarebbe pian piano allargato al Nord, 'ndranghetizzando la loro nebbiosa Brianza. Ben gli sta.

E' questa, dal punto di vista di Noi Italiani, a tutti gli effetti, un'occupazione straniera, visto che i padani si considerano razza (assai bastarda) a parte. 
L'Italia vera, quella che compie 150 anni quest'anno, quella di cui una volta non dovevamo vergognarci, non vuole il federalismo, perché sa che è una minchiata che non ci possiamo permettere. Che aumenterebbe le tasse ai cittadini ed alle imprese, introdurrebbe i dazi per entrare nelle città turistiche (tassare il turismo, che genialata!), che, sotto forma di aumento dell'IMU (tassare le imprese, che menti!) farebbe rientrare dalla finestra l'ICI uscita dalla porta. Che, se passerà, favorirà i proprietari di seconde case al mare e i padroni di case in affitto ma non le buste paghe che diventeranno più leggere se i comuni decideranno di spremerle con le varie tasse di scopo.

Come tutte le occupazioni straniere ci sono perfino  le rappresaglie sui civili. Siccome era un'idea dell'UDC e Pierferdy Casini ha ostacolato i due vecchiacci, via dal progetto di legge il bonus affitti di 400 milioni di euro per le famiglie con figli a carico, tiè! Mamma chiama e Calderoli va.

Per il momento il Parlamento ha respinto la bozza della legge sul federalismo con un risicato "fifteen all" ma Berlusconi, come un McEnroe dei tempi andati, ha preso a racchettate il giudice di sedia e ha sbraitato che la legge passerà lo stesso. Gioco, partita e incontro. Anzi, Grande Slam.
"Federalismo o morte", biascica Bossi con i neuroni rimasti. La base leghista, che non sa nemmeno cosa significhi veramente federalismo in termini di attacco alla scarsella e non immagina nemmeno quanto verrà sfondata di tasse, dovesse passare, è in fermento.

Allora, signori, siccome a volere lo stramaledetto federalismo sono una manciata di regioni al massimo, diamoglielo e facciamola finita. Via Lombardia, Veneto e chi altro vuole dall'Italia. Via tutti dal SSN. L'assistenza medica da domani se la pagano con il sudore delle loro chiappe lombardovenete. Si pagano il dottore, le medicine e tutto.
Via le basi NATO, e se la Slovenia li invade, cazzi loro. Si comprino i loro carri armati e i loro caccia come tutti. Si paghino un esercito. Costa un po' caro ma vuoi mettere poi partecipare alle missioni di pace? Noi non daremo loro più nemmeno un fuciletto a tappo.
Non vi piace Roma? Secessione allora, ma secessione vera, dura, non il Vapensiero cantato sul palcoscenico con le comparse con l'orologio e le quinte di cartapesta. Basta pagliacciate sul prato di Pontida con il Bossi che ce l'aveva duro.
Secessione si ma deve essere una roba pesa. Ricominciare tutto da capo, con le 'ndrine che spingono alla porta per papparsi tutta la loro triste Brianza  mentre i padani sbraitano contro i négher.
Non è una bella prospettiva, vero? Eppure non è ciò che i padani vogliono? Se si potesse farglielo ingoiare tutto, il federalismo, e solo a loro, io non avrei nulla in contrario. Anzi, vorrei che lo provassero fino in fondo e senza pietà.

Purtroppo invece ci andiamo ci mezzo tutti, il Nord non leghista e tutti coloro che sanno bene che la Padania non esiste ma è solo l'albero degli zecchini con il quale il Gatto Umberto e la Volpe Silvio, questi bugiardi matricolati, hanno imbrogliato la loro base elettorale. Zecchini che ci sono, è vero, ma vanno tutti nelle tasche della cricca e nelle borsette firmate delle mignotte.
A proposito. Non è per razzismo o cattiveria ma, dopo Craxi e Berlusconi, se Milano si asterrà nei prossimi duecento anni dal fornirci statisti di tal pregio, gliene saremmo infinitamente grati.

Il gatto e la volpe si sostengono a vicenda anche se sono due morti che camminano. Se cade uno precipita anche l'altro. Siamo la repubblica degli zombie e dei vampiri. Ci vorrebbero degli esorcisti di quelli buoni e un paio di paletti di frassino.


Basterebbe un calcio ad uno dei piloni e crollerebbe tutta la baracca ma nessuno è capace di tirare fuori le palle per farlo. Ci vorrebbe un'ispirazione dal Cielo. Bisognerebbe che Napolitano entrasse in una cabina telefonica e ne uscisse con il costume di  SuperPertini. Ma si, figurati.

mercoledì 2 febbraio 2011

Come sono buoni i nani

Chi passasse in questi giorni da Arcore vedrebbe un tale affollamento di avvoltoi e sciacalli da domandarsi come mai non vi sia  il coprifuoco e l'esercito che spara a vista. 
I berlusconidi rettiliani stanno passando alla fase finale del cannibalismo rituale, allo spolpamento controllato del duce, pezzo per pezzo. E' un delirio antropofagico da mondo movie, dove tutti si affollano attorno al nano ancora vivo per strappargli un orecchio (diecimila) un brandello di culatello flaccido (cinquemila), una coratella (bonifico infruttifero) o un arto intero (centocinquantamila). Prima che il vecchio schiatti o fallisca bisogna arraffare il più possibile.  

Non è il popolo inferocito ed affamato che fa la rivoluzion, sono i suoi più stretti collaboratori, le sue addette alla pompetta, perfino gli amici che si dividono di nascosto la merenda a metà o quelli che vedono improvvisamente le quotazioni delle loro chiappette raggiungere vette da Gronchi rosa perchè il loro voto potrebbe essere fondamentale per la salvezza del flaccido e allora si precipitano ad abbuffarsi come alle inaugurazioni delle mostre, dove si mangia gratis. 

In questo Cannibal Holocaust reloaded non poteva mancare, per un curioso scherzo del destino, Luca Barbareschi, già immortale protagonista dello storico cult movie. Anche lui è stato ad Arcore, a vedere se era rimasta qualche costola da rosicchiare, un ginocchio da bollire per un ottimo brodo o un bel fegato da accomodare con le fave. Oppure no, Barbareschi è vegetariano, fedelissimo di Fini e stiamo solo, come al solito, pensando male, condizionati dal ricordo di filmacci malsani?

Barbareschi fa fuori il maiale nel primo "Cannibal Holocaust". Cosa combinerà nel seguito che uscirà lunedì?

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