domenica 11 dicembre 2016

Chirurgia per persone di plastica



Vi propongo l'articolo che ho scritto per la rivista "Puntozero", nel numero di Ottobre - Dicembre che trovate in edicola. Un ringraziamento ancora una volta a Tom Bosco per l'ospitalità.


Qualche settimana fa è morto ultranovantenne Ivo Pitanguy, il medico brasiliano che negli anni sessanta-ottanta era il primo nome in assoluto che a chiunque sarebbe venuto in mente pensando alla chirurgia estetica. Egli non era solo chirurgo delle star e autore, nel corso della sua lunghissima carriera, di ben 25.000 lifting, ma fu una figura preminente della chirurgia plastica ricostruttiva, quella che riduce gli effetti devastanti sia estetici che funzionali di malformazioni e lesioni da incidenti. In questo settore Pitanguy era famoso per offrirsi di operare gratuitamente quei pazienti poveri che non avrebbero mai potuto permettersi nemmeno il più leggero dei “ritocchi” che le celebrità di tutto il mondo gli richiedevano a suon di bigliettoni. 

Leggendo i vari necrologi di Pitanguy apparsi sui giornali ho scoperto che Niki Lauda, dopo il tremendo incidente del Nürburgring, si era rivolto a lui per la ricostruzione delle palpebre, rimaste completamente ustionate nel rogo della sua Ferrari. Dopo l'intervento, necessario per ripristinare la normale funzionalità visiva, Pitanguy chiese a Lauda se volesse ricostruire anche il resto del volto ma il pilota austriaco rifiutò, con la motivazione che: “A me semplicemente non piaceva l’aspetto che avrei avuto. Penso sia sbagliato, se ti sei operato la gente se ne accorge: la cosa importante di un intervento è che non si deve notare. Devi avere abbastanza personalità da superare la questione della bellezza e trovare la forza di volerti bene per come sei”. (fonte)


“L'aspetto che avrei avuto”. E' questa l'incognita che forse oggigiorno chiunque intenda sottoporsi ad un intervento in grado di modificare un'intera fisionomia tende sempre di più a sottovalutare, nell'era della riprogrammazione totale dell'aspetto esteriore dell'individuo vissuta quasi come obbligo, da affrontare spesso con leggerezza. Quasi come se le modifiche anche pesanti da imporre al proprio corpo potessero, in caso di pentimento, venir cancellate con la facilità del gesso sulla lavagna. Sugli aspetti sociali del fenomeno mi soffermerò più tardi ma intanto vorrei che tenessimo presenti i concetti di conservazione della propria personalità e di accettazione di sé. Qualcosa che ha molto a che fare con il principio di libero arbitrio dell'individuo. La questione è fondamentale perché le motivazioni per le quali oggi ci si sottopone ad interventi di chirurgia esteriore, più che estetica, tendono ad intaccare sempre di più quella libertà, a diventare anch'esse strumento di coercizione e controllo e di imposizione di modelli a volte francamente inquietanti. 

La frase di Lauda mi ha ricordato anche un episodio lontano della mia infanzia. Tra le nostre conoscenze estive di villeggiatura c'era la figlia di un medico, una bella ragazza, con un viso che rimaneva impresso perché era diverso dagli altri, di un tipo di bellezza non comune. L'anno successivo, quando li rincontrammo, la ragazza era divenuta irriconoscibile. Si era rifatta il naso, ed era entrata, da unica che era prima, nell'esercito dei cloni. Aveva ottenuto, grazie alla chirurgia, quella bellezza standardizzata e ahimè scialba che faceva dire ad Oscar Wilde: “Aveva uno di quei volti che, visti una volta, non te li ricordi mai più.” 
Credo che la delusione che provai nel vedere quanto quella ragazza fosse cambiata e come non fosse drammaticamente più lei mi abbia sempre in seguito dissuaso dal ritoccare il mio naso importante, evidentissima eredità di mio padre, a volte fonte di imbarazzo a causa di coloro che, ogni tanto, credendo di colpirmi nel punto debole, me ne facevano notare, appunto, l'importanza: “Certo, se tu correggessi quel naso, saresti molto più carina”. Sono sempre stata sicura invece che, nonostante il riavvicinamento a canoni estetici classici – in ogni caso artificialmente ottenuti – rifacendomi il naso e ridisegnando quindi la mia intera faccia, ottenendo un'altrettanto artificiale desiderabilità sociale, non sarei però stata più io. Né avrei naturalmente potuto sapere “l'aspetto che avrei avuto”. 
Neppure oggi ritoccherei altre parti del viso e del corpo che nel frattempo hanno iniziato ad essere segnate dal tempo che passa. Imparare a volersi bene, appunto.

Accettarsi e valorizzare la propria unicità. Ecco ciò che rendeva tanto attraenti, perfino nella mostruosa deformità, i freaks, le meraviglie umane del mondo dello spettacolo del passato. Leggendo le loro storie si resta stupiti di quanto spesso si trattasse, piuttosto che di poveri schiavi in mano a circensi senza scrupoli, di persone in grado di esercitare, tramite la seduzione, un grande potere sugli altri. Una tradizione, del resto, che prosegue dai tempi degli amatissimi nani delle corti europee rinascimentali. 
Il capolavoro di Tod Browning del 1933 a loro dedicato, film caratterizzato da una vena incredibilmente erotica che scorre sottotraccia, come si può notare nella scena delle gemelle siamesi e del loro corteggiatore, mostra chiaramente questo potere di seduzione e, alla fine, se i veri mostri sono i “normali”, la bella Cleopatra e il forzuto Ercole, non è perché essi hanno complottato contro i freaks per ucciderli ed appropriarsi dei loro beni – quelli del ricco nano protagonista, dall'inquietante aspetto infantile - ma perché hanno violato la sacralità del monstrum, hanno cercato di imporre la loro “normalità” sotto forma di violenza. L'atroce vendetta finale dei freaks non è altro che giustizia divina applicata tramite contrappasso ed affermazione rivoluzionaria della inviolabilità dell'unicità, ovvero della libertà di essere ciò che si è. Per esempio capaci di arrotolarsi una sigaretta pur non avendo né braccia né gambe.



Quando oggi sentiamo parlare tanto di difesa della diversità e di sua promozione, non ci si riferisce affatto all'originalità dell'unico e allo spirito rivoluzionario che l'accompagna ma all'imposizione di una diversità programmata a tavolino in ogni piccolo dettaglio e soprattutto approvata ed incoraggiata dal potere. Possiamo essere diversi ed essere valorizzati come tali solo se scegliamo un modello di sé dal catalogo delle proposte del pensiero unico. Possiamo scegliere tra tutte le sfumature del gender e le combinazioni dell'intersezionale, possiamo modificare, accessoriare, ridisegnare il nostro corpo, però secondo schemi dozzinali e ripetitivi, per ciò che diventa alla fine nient'altro che un sistema di marchiatura che renda più facilmente riconoscibili i capi della mandria.
Come avviene, ad esempio, nel caso della moda del tatuaggio, intesa come necessità di essere anche noi come gli altri illustrati, in modo da essere riconoscibili. Questa moda assume aspetti grotteschi quando si vedono sulle spiagge persone ridotte a muri di latrina, coperti di scritte e disegni a casaccio senza un filo logico che li leghi, come invece prevede il codice dei tatuaggi rituali di altre culture e subculture, come quella carceraria.

Se si parla di aspetto esteriore e nello specifico di chirurgia, la tendenza attuale più evidente è quella di plastificare i corpi, di renderli artificiali, ma più simili alle caricature dei fumetti (come le ragazze che si fanno gli occhi stile Manga) rispetto agli androidi della fantascienza. C'è chi apertamente dichiara di voler diventare Barbie o Ken (storia quest'ultima finita tragicamente), e si sottopone a decine di interventi per riuscirci. Badate bene, vogliono diventare bambole, ovvero oggetti inanimati, non altre persone. Paradossalmente, gli interventi di cambiamento di sesso sortiscono effetti molto più naturali e, in alcuni casi, “non si vedono”, come nel caso dei lady boy thailandesi.
Se parlate con qualunque chirurgo plastico vi dirà che sconsiglia sempre ai propri pazienti gli interventi più estremi e che l'apporto dello psicologo è sempre richiesto in questi casi.
Sarà. Eppure basta digitare “chirurgia estetica estrema” sui motori di ricerca per ottenere un campionario di orrori da togliere il sonno e per rimanere scioccati dall'evidente invasività di questi interventi.
Si tratta di persone che si sottopongono a volte a decine di interventi, ognuno dei quali comporta tagli, suture, inserimento di tubi nella carne viva per aspirare litri di grasso e sangue, di corpi estranei come protesi al silicone o impianti di muscoli addominali di plastica per simulare la famigerata “tartaruga” di chi si allena in palestra, fino ad iniezioni di cemento (!) e, più comunemente, di veleni come il botulino.

I risultati sono sempre più spaventosi. Donne dalle labbra gonfiate come canotti, dai seni e glutei irreali, sfigurate da occhi tirati all'inverosimile, uomini dall'espressione di gatto. Perfino attrici bellissime, di beltà divinamente naturale, accettano un brutto giorno di farsi sfigurare, di cancellare i tratti caratteristici della propria etnia (Reneé Zellweger), di dotarsi di stucchevolissime guanciotte e nasetto a punta (Nicole Kidman) o di rendersi completamente irriconoscibile (Uma Thurman). Anche gli uomini non sono da meno, e se lo sbiancamento e riprogrammazione del volto di Michael Jackson faceva parte probabilmente del tentativo del cantante di strapparsi di dosso il ricordo di qualcosa di geneticamente abusante, quelli di Mickey Rourke e Axl Rose sono sicuramente i casi di chirurgia horror vip più eclatanti. Tutti questi belli rovinati dal bisturi finiscono poi per assomigliarsi nella disgrazia, tutti fissati nella rigidità cadaverica del botulino, nella caricatura di una serie Nexus 6 venuta male. 

C'è un altro aspetto, infatti, oltre alla plastificazione dei corpi. Gli operati, chi ha dimestichezza con le camere mortuarie lo nota subito, assomigliano, più che a persone belle e in salute, a salme appena preparate per l'ultimo saluto. La morte ha, sui muscoli facciali, lo stesso effetto del botulino. Vale la pena di spendere soldi (il costo minimo di un lifting è di 5000 euro) e di correre il rischio operatorio per sembrare morti che camminano? E' anche questo un aspetto di quella “società di zombie” che verrebbe propiziata, secondo alcuni, dai vari nuovi ordini mondiali?

Quando l'effetto finale non è più quello di “non far notare l'intervento” ma di renderlo drammaticamente evidente, e sempre di più, con effetto cumulativo ad ogni ulteriore ritocco, qual è il significato di tutto ciò per chi vi si sottopone? 
Chi arriva a torturare il proprio corpo con decine e decine di operazioni, quando le persone normali eviterebbero volentieri qualunque incontro ravvicinato con il bisturi, pur necessario per motivi di salute, lotta contro una insopportabile non accettazione del sé che cerca consolazione nell'omologazione culturale e sembra entrare in una spirale di dipendenza non dissimile da quella della droga o della ludopatia. 

Accettarsi, si diceva all'inizio. Accettare le proprie imperfezioni, accettare di invecchiare, di cambiare. Di lasciare che il nostro volto racconti la nostra lunga storia, anche se è una storia di fuoco e sofferenza, come quella di Niki Lauda. Una storia però vera, e di rinascita, di coraggio. I segni, le rughe, le imperfezioni, sono le cicatrici della nostra maturazione. Sono il modo più estremo che abbiamo di essere nudi. Una nudità che fa paura e che preferiscono che ricopriamo con uno strato di plastica. Fissati nel rigor mortis dell'apparire senza essere.



9 commenti:

  1. Anonimo01:39

    il troppo benessere addormenta la ragione, il cui sonno, si sa, genera mostri.

    Alessandro.

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  2. Ho un punto di vista piu' semplice: la chirurgia estetica non funziona. Tutto il resto e' morale, quindi discutibile. Condanniamo anche chi spende per bei vestiti? Sono fatti culturali, milioni di donne tingono i capelli, e' accettato e basta. Siamo anche apparenza, l'aspetto esteriore e' una delle nostre interfacce. Doti come bellezza ed intelligenza sono facilitatori esistenziali, chi non vorrebbe avere piu' memoria e lucidita'? Assimilo la bruttezza col dolore: maledizioni della nostra condizione umana.

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  3. Essere e apparire combattono da sempre, solo la propria consapevolezza dirime la questione.

    @neuroperplesso3

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  4. Una domanda Lameduck, ma l'ultima foto, quella del trans te l'ha passata il Lapo? :-))

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  5. Anonimo18:10

    Secondo me la ragione è un altra. Questi interventi sono il marchio distintivo di appartenenza all'elite. E, alla fine, manco è una novità. Basti pensare ai piedi fasciati cinesi, cosa che solo una donna con servitù poteva pensare di avere, o le teste fasciati degli unni(mi pare fossero loro)

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  6. Anonimo20:49

    tampieri ,la "canappia" che hai tra gli occhi non é poi granché ...io fendo l'aria , quando c'é vento ho un problema di aereodinamica , se avessi soldi li userei per uno studio sulle turbolenze.
    saluti
    luigi

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  7. C'è anche, secondo me, un'iperglorificazione del giovanilismo.
    Quando hai 12 anni, devi sbrigarti a crescere e vestirti già come se ne avessi 18. Quando hai 50 anni, è vietato invecchiare e devi per forza apparire come un ventenne.
    E' il rifiuto, sempre secondo la mia personale opinione, dell'infanzia da un lato e della vecchiaia dall'altro, viste come stagioni "inutili". L'immagine di un vecchio è oggi associata, guarda caso, più al costo della sua pensione che al patrimonio di esperienza e di vita che può apportare. Il risultato, per l'appunto, ci vede costretti, nel corpo e nell'anima, ad essere dei "giovani di plastica".

    Bellissimo articolo, pieno di interessanti spunti di riflessione.

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  8. Anonimo20:01

    "Accettarsi, si diceva all'inizio. Accettare le proprie imperfezioni, accettare di invecchiare, di cambiare. Di lasciare che il nostro volto racconti la nostra lunga storia, anche se è una storia di fuoco e sofferenza, come quella di Niki Lauda. Una storia però vera, e di rinascita, di coraggio. I segni, le rughe, le imperfezioni, sono le cicatrici della nostra maturazione. Sono il modo più estremo che abbiamo di essere nudi"

    la fatica e la passione te ne sono grate.
    grazie,
    formic.

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  9. Bellissimo pezzo, complimenti e grazie per averlo condiviso con noi.

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