Le quasi 2000 vittime dell’onda di fango che sommerse tre paesi, Erto, Casso e Longarone, in quella che è ricordata come la tragedia del Vajont, accaduta esattamente cinquant'anni fa, il 9 ottobre del 1963, riposano in località Fortogna, vicino alla nuova Longarone.
La prova tangibile e angosciante della violenza subita dalla popolazione di un paese intero, dalla natura ma su suggerimento dell'uomo, in quello che può essere considerato l'episodio zero dell'economia dei disastri in Italia. Una tragedia fin troppo prevista dagli abitanti, da pochi inascoltati esperti e dal forte e generoso impegno civile della giornalista Tina Merlin, che aveva denunciato il pericolo nei suoi articoli sull'Unità.
Un disastro provocato dall’incoscienza di chi aveva voluto una diga ultramoderna “che non sarebbe mai crollata” nel luogo dove non avrebbe mai dovuto esserci. La diga non si ruppe, è vero, ma fu la montagna alla quale era stata abbarbicata a forza che cedette. Milioni di tonnellate di montagna franarono sull’invaso e l’onda risultante piombò sui paesi vicini, distruggendo cose e spezzando vite.
Nessuno aveva ascoltato i montanari - cosa vuoi che capiscano più degli ingegneri.
Quella diga s’ha da fare. A tutti i costi. Nessuno aveva ascoltato, a diga ormai completata, il borbottìo sempre più inquieto del monte Toc che faceva tremare le case di Erto e Casso e le preoccupazioni delle popolazioni che erano stato raccontate solo da Tina. Turbativa delle quiete pubblica, fu la denuncia che si beccò, ma Tina continuava a scrivere e a mettere in guardia contro quel mostro che poteva risvegliarsi in qualunque momento. Subito dopo la tragedia scrisse: "Oggi tuttavia non si può soltanto piangere, è tempo di imparare qualcosa". La storia del Vajont è riassunta nel suo libro “Sulla pelle viva”.
Nel 2003 furono appaltati i lavori per il rimodernamento del sacrario dove riposano coloro tra le vittime che poterono avere una degna sepoltura, mentre quasi 500 non furono mai più ritrovate. Gli arredi originali del vecchio cimitero furono rimossi e le lapidi accatastate o rotte, la collocazione delle salme stravolta.
Il risultato, inaugurato il 9 ottobre del 2004, e costato sei milioni di euro è questo. Un'orrenda distesa di cippi che si guardano (cosa sono, monitor?) che ha oltraggiato i famigliari delle vittime , i quali non sono nemmeno stati consultati prima dei lavori.
Per giunta i cippi non riportano nemmeno più la famigerata data del 9 ottobre 1963.
Se c'era una cosa che stringeva il cuore e dava l'idea della tragedia a chi, come me, ebbe modo di visitare il cimitero di Fortogna prima del suo stravolgimento, era leggere su tutte le lapidi, pur diverse tra loro, la stessa data di morte. Duemila nomi, volti, età, famiglie intere spazzate via nello stesso momento ma ognuno con la sua storia che era lì pronta per essere raccontata se avevi la pazienza di soffermarti ad ascoltarla.
Ora sembra un cimitero di guerra, con i cippi tutti uguali dove vedi solo dei nomi che non ti raccontano la storia di ogni soldato con la sua faccia di ragazzino andato via troppo presto. Come ti sembrerebbe più orrenda la guerra se potessi guardare in volto ogni soldato morto.
Un cippo uguale per tutti meno che per il Vescovo Muccin, al quale è stata assegnata una tomba tradizionale e meno anonima. Il Comitato se ne è chiesto il perché ed ha protestato per questo trattamento di favore per il prelato. 'A livella, evidentemente, non vale a Longarone.
Complimenti, articolo molto bello.
RispondiEliminaTengo solo a precisare che, da quanto mi risulta, quasi tutti gli esperti avevano evidenziato il rischio seppur di gravità diverse.
Ma soprattutto c'è da sottolineare che fra questi c'erano anche periti di parte, incaricati dalla stessa SADE, la quale celò o manipolò i referti.
Tragedia esemplare che dovrebbe servire da monito a chi preferisce il privato senza scrupoli allo Stato ladro.