"L'esperienza psichedelica conduce per l'appunto nelle profondità della coscienza, dove l'illuminazione e la follia giacciono l'una accanto all'altra." Albert Hofmann, 1991
Vi sono personaggi che rimangono per tutta la tua vita nascosti sulla faccia oscura della Luna e in forma di fredde nozioni da wikipedia mentale (il fondatore dei Pink Floyd, il diamante pazzo che, bruciato dall'LSD, dovette lasciare il gruppo che in seguito però gli dedicò alcune delle sue canzoni più belle mentre lui piombava nell'oblio della malattia mentale); poi, casualmente, una sera te ne imbatti guardando un documentario in televisione, quel nome e quelle nozioni prendomo vita, movimento, suono e da quel momento capisci finalmente cosa deve aver provato Paolo di Tarso sulla via di Damasco.
L'incontro con Syd Barrett è fatale. Non ti liberi più di questo meraviglioso fantasma, che diventa ben presto l'ossessione di chi si trova di fronte un oggetto cosmico di straordinaria bellezza ed impenetrabile mistero che non ti lascia fintanto che non hai provato a conoscere tutto di lui, a spiegarlo e a rendergli giustizia. Perché, ti chiedi, non conoscevo la sua musica e sono arrivata solo oggi a scoprire un album come "The Piper at the Gates of Dawn"?
L'aver avuto sette anni nel '67 non è una giustificazione e nemmeno l'aver trascorso l'adolescenza all'oscuro dell'esistenza di qualsiasi forma di musica che non fosse quella classica perché rinchiusa nella Guantanamo di un conservatorio di musica, con il risultato di ritrovarsi a vent'anni con gusti pop musicali orrendi che taccio per pudore e che sono però riuscita a rieducare nel tempo a forza di Hendrix, Morrison e tutto ciò che musicalmente ha contato nel novecento. Credevo di aver finito, e invece Barrett è infine la tessera che mancava, la cellar door che conduce da ciò che c'era prima di lui in musica a ciò che è venuto dopo, richiudendo il cerchio. Ascoltando Barrett non solo capisci perché i Pink Floyd sono diventati grandi ma scopri il DNA dal quale sono nati, ad esempio, Bowie, il punk, Cobain, e hai modo di renderti conto di cos'era la musica prima della decadenza attuale, della musica come tortura sonora dei centri commerciali.
Non stupisca la costante ricorrenza della metafora astronomica nel riferirsi all'autore di brani come "Astronomy Domine" e "Interstellar Overdrive", legata dell'ambientazione di alcune sue esperienze lisergiche; essa è perfettamente consona ad un personaggio che è immerso in quell'immaginario collettivo anni '60 per il quale lo spazio e l'al di fuori non erano mai apparsi così a portata di mano e perché stiamo parlando di un'esistenza ad immagine e somiglianza del destino di una stella gigantesca, di una supernova che poi divenne black hole, buco nero capace però di esercitare un'attrazione irresistibile in tutti coloro che si sono trovati volontariamente o casualmente ad avvicinarvisi. Un'attrazione che va oltre il tempo e lo spazio e che ti perde per sempre nella sua contraddizione di mondo di suoni colorati e luci armoniche, illuminato da lampi di genio e abissi di disperazione dai quali rischi infine, se li guardi troppo a lungo, di fartene guardare.
Le prime vittime di questa ossessione furono gli stessi Pink Floyd, infestati a tal punto dall'ispirazione barrettiana da cercare disperatamente di esorcizzarla attraverso due dei loro concept album. Casualmente i più immortalii: "Wish You Were Here" ma soprattutto "The Dark Side of the Moon", dove qua e là compaiono frammenti, echi, ricordi, ectoplasmi del loro primo album barrettiano. Non so se si può parlare di Sindrome di Salieri per Roger Waters ma anche "The Wall" sembra l'ennesimo tentativo di un buon musicista di liberarsi dall'impari confronto con un essere mozartiano come Syd Barrett. E tutto ciò per ritrovarsi, nel nuovo millennio tritacarne di YouTube, con la propria opera più ambiziosa, "The Wall",
mashuppata con Stayin' Alive dei Bee Gees (l'orrore... l'orrore..., povero Roger, nel senso di Waters).
Dal punto di vista musicale l'opera di Barrett è assolutamente unica. E' l'entusiasmo di scoprire una nuova specie sonora misteriosa e luminosa che vive in un lago buio in fondo alla coscienza, è entrare in un'altra dimensione di melodie aliene che pure scopri esserti perfettamente familiari. Un linguaggio armonico assolutamente comprensibile anche nei passaggi più atonali ed apparentemente destrutturati. In questo senso il brano più straordinario è sicuramente
"Interstellar Overdrive" (la versione dell'album
, quella che preferisco
o qui in
versione alternativa) dove la melodia discendente (una costante nella scrittura di Barrett) piano piano si liquefa in un flusso di musica pura e senza confini per poi riemergere in forma distorta e ricostruirsi nel riff iniziale dopo averti portato ovunque.
Oltre la pura sperimentazione, la libera associazione di suoni nei brani come "Interstellar Overdrive" vi sono le canzoni che ci accompagnano nel mondo fantastico e ancora infantile di un autore che, non bisogna dimenticarlo, all'epoca in cui le scrisse aveva solo vent'anni: "Bike", "The Gnome", "Mathilda's Mother".
"Flaming" è un gioiello assoluto. Un momento di assoluta e pura contemplazione dagli echi di Glockenspiel che ci riportano al mondo fantastico del Flauto Magico.
Una menzione a parte merita l'ultimo brano di Barrett inserito in un album, il secondo, dei Pink Floyd,
"Jugband Blues", prima della definitiva rottura. Un vero e proprio testamento da lasciare ai compagni, incapaci di reggere la sua personalità, la sua eccentricità e forse timorosi di vedersi sfuggire un successo oramai a portata di mano per colpa di un pazzo che si rifiutava di cantare dal vivo durante la prima tournée in America, ma che saranno costretti dal destino a non liberarsi tanto facilmente di lui:
"and I'm wondering who might be writing this song". Jugband Blues è un potente sberleffo con un uso mahleriano e grottesco della musica bandistica. Un cosmico e lisergico pernacchio ad uno dei più grandi gruppi rock della storia da parte del suo fondatore.
Dopo l'esperienza con i Pink Floyd Syd Barrett torna in studio di registrazione per due album solisti, tra il 1968 e il 1970. "The Madcap Laughs" e "Barrett" contengono brani particolarissimi come
"Golden Hair" , una melodia struggente di otto note ripetute su un testo di James Joyce che sembra provenire da un altro mondo, il blues assolutamente folle e alla Zappa di
"Maisie" o la fiaba umoristica dell'
"Effervescing Elefant". Sempre di quel periodo sono
"Bob Dylan Blues", uno straordinario omaggio al cantautore di "Blowing in the wind", e "Gigolo Aunt" che sembra un vestito tagliato su misura per David Bowie, il quale invece registrerà una versione nemmeno delle migliori di "See Emily Play", uno dei primi singoli dei Pink Floyd, e canterà una fin troppo impacciata ed intimorita "Arnold Layne" live nel 2007.
Dopo questi ultimi lavori e un estremo tentativo di concerto dal vivo con una band chiamata Stars, Syd abbandona per sempre la musica. La cosa può sembrare incomprensibile e folle solo a chi non sappia come la musica sia perfettamente in grado di succhiarti la vita e mandarti fuori di testa se non ucciderti, se le permetti di prendere il sopravvento, se osi metterne in discussione il ruolo di primo piano nella tua vita e se hai altri interessi che vorresti parallelamente coltivare. Syd tradiva sistematicamente la musica con la pittura, il suo vero amore. La musica è amante possessiva e fatale e non perdona. Non c'è niente di folle nell'evitare ciò che ti fa ormai solo male.
Lo sforzo compositivo è uno dei più intensi intellettualmente e, come ha sottolineato Rob Chapman nella sua bella biografia di Barrett
"Una mente irregolare", il tour de force al quale fu sottoposto dopo l'esplosione del successo dei Pink Floyd, con continui concerti, esibizioni e comparsate televisive, avrebbe distrutto e mandato in esaurimento nervoso chiunque.
Negli anni settanta, anni nei quali di lui si sa ben poco, ma forse perché trascorrono senza che succeda nulla di importante, il Syd musicista lascia spazio sempre di più al Roger Keith Barrett che cerca di rimettere assieme i pezzi della sua mente irregolare, come lui stesso la definiva, provata da esperienze troppo intense e vissute tutte assieme troppo presto, tra le quali l'abuso di droghe non è stato forse l'unico elemento patogeno.
Dispiace che l'unico aneddoto riferito a quegli anni e regolarmente raccontato in tutte le interviste dai membri superstiti dei Pink Floyd, non senza una punta di vittimismo autoassolutorio e la lacrimuccia d'ordinanza, sia l'episodio al limite tra la leggenda e la realtà del Syd ormai sfigurato ed irriconoscibile che si presenta come un fantasma negli studi di registrazione durante la realizzazione di "Wish You Were Here", ispirato e dedicato, guarda un po', proprio a lui e che sparisce dopo essersi comportato in maniera da traumatizzare per sempre i poveri ex compagni. Peccato perché altre immagini successive invece non ce lo mostrano affatto irriconoscibile ma soltanto ciò che si diventa con gli anni: più grassi, stempiati e senza più la luce dei vent'anni negli occhi.
Nel 1982 Roger Keith Barrett torna a casa, a Cambridge, nella città degli stravaganti in bicicletta e dei tanti geni. La Cambridge di Isaac Newton, di Ludwig Wittgenstein e dell'inventore del primo calcolatore, il suo allievo Alan Turing, suicida con una mela avvelenata che ispirerà il visionario Steve Jobs, la città di Stephen Hawking, di John Maynard Keynes, di tre dei Monty Python (Cleese, Chapman, Idle) e dei Pink Floyd, appunto.
Le immagini ce lo mostrano ritornato ad una normalità e perfino banalità d'aspetto che possono sembrare anormali solo in questo mondo votato all'apparire ed al glamour ad ogni costo.
La storia personale di Syd Barrett, analizzata attraverso le sue azioni, perché l'intimo del suo cuore rimarrà per sempre giustamente un mistero, così come la vera entità della sua dissociazione dalla realtà, è comunque quella di un uomo che ha dimostrato una titanica volontà di ricostruirsi e riprendere possesso della propria vita dopo aver rischiato di perdersi e per questo si è dimesso da rockstar, ha compiuto il gran rifiuto, scegliendo la tranquillità del suo nido e della sua città natale.
Non so perché ma le ultime immagini di Roger ormai anziano, a spasso in bicicletta per Cambridge, mi fanno venire in mente "l'Ultimo Imperatore" di Bertolucci, quando Pu Yi, finalmente libero dalle catene della divinità e da un ruolo sociale sempre vissuto come un peso, se ne va tranquillo per Pechino, negli abiti modesti di un cinese qualunque.
C'è un altro elemento caratteristico della personalità di Roger Barrett che rimanda ad un concetto totalmente in contrasto con il materialismo assoluto della nostra epoca. Dipingeva i suoi quadri, li fotografava e poi li distruggeva. Riusciva cioè a separarsi dalle proprie creazioni, a riconoscerne l'impermanenza.
Sembrerà paradossale dirlo ma questo, assieme al ritiro volontario nella quiete di una vita normale, sembra il percorso che solo un uomo che abbia potuto, attraverso l'esperienza lisergica, andare in profondità nel proprio sé guardando in faccia il proprio lato più oscuro, può percorrere sulla via della purificazione e dell'allontanamento dalla sofferenza e forse della guarigione. La migliore conclusione che si possa trarre dal dibattito sulla presunta follia di Barrett, mai ufficialmente diagnosticata, è racchiusa nella citazione che ho riportato dello scopritore dell'LSD Albert Hofmann, sull'illuminazione che giace accanto alla follia, e nel pensiero di Cesare Musatti, secondo il quale la psicosi è un evento che ognuno di noi può sperimentare nella propria vita; in un certo senso un evento quasi fisiologico dal quale si può anche tornare indietro, come dimostrano tanti casi di persone che dopo malattie mentali anche gravi sono guarite o per lo meno hanno trovato un loro equilibrio all'interno di esse. Sappiamo che la dichiarazione di follia è servita nei secoli come marchio d'infamia per la repressione della creatività e della diversità e che non c'è condanna peggiore che essere dichiarati ufficialmente pazzi e rimanerne marchiati anche quando ormai ne siamo usciti o tentiamo di conviverci. Solo il concepire la follia come irreversibile e la sua riduzione ad evento organico ha potuto condurre all'abominio della lobotomia come "cura" chirurgica.
Oggi, in questo mondo triste e vuoto e in quest'epoca disperata, Syd Barrett sarebbe considerato banalmente un artista multimediale. Pittore, musicista, visionario, pop star. Se avete letto fino a qui sentirete stridere questa definizione in tutta la sua inadeguatezza. Era tutto ciò ma ancora e ancora di più, all'infinito.
Ciò che è invece terribilmente vero è che avremmo un disperato bisogno dell'ispirazione di persone come Roger Keith Syd Barrett che, magari con una canzone e un guizzo di genio, riescono a squarciare il velo di tristezza che ci opprime, e che per questo quando le incontriamo sul nostro cammino ci affascinano fino alla perdizione.
C'è un fatto straordinario che rappresenta infine la vendetta postuma del vero genio che non può essere scalfito né dal tempo (ecco il senso ultimo della metafora del diamante in tutto questo discorso), né dallo stigma della morte civile e dell'apposizione della lettera scarlatta della follia, e tanto meno, in fondo, dalla propria scelta consapevole di scomparire in vita e di distruggere il proprio mandala di sabbia multicolore con un gesto della mano sperando di essere dimenticato. Questo fatto è l'incredibile numero di persone che, a quasi cinquant'anni dai suoi splendori e a quasi dieci dalla morte, avvenuta il 7 luglio del 2006, l'uomo e l'artista Roger Keith Syd Barrett ancora riesce a conquistare. Esattamente come quando da ragazzo, bello più del sole, spaccava cuori a ripetizione. Ti chiedi il perché e non riesci ancora a capire.
Magari Syd Barrett è proprio
quel gatto siamese sempre al tuo fianco.
"That cat's something I can't explain".