Da mesi tira una brutta aria al Pentagono e se non è proprio tintinnar di baionette, poco ci manca. I generali americani sono in subbuglio e sempre più insofferenti verso l’amministrazione Bush a motivo della disfatta in Iraq e della minaccia di allargamento del conflitto su un terzo fronte in Iran.
Bisogna andarsi a cercare le notizie in qualche articolo di giornale e su Internet perché i nostri telegiornali delle ore venti, tra un matrimonio del secolo e un fattaccio di cronaca al sangue preferiscono, se proprio devono parlare di cose serie, far passare l’idea che alla Casa Bianca “tutto va ben, madama la marchesa”. I consensi di George sono in caduta libera e lo sanno anche le pietre ma per gli inviati a Washington più realisti del re, come l’apposito Borrelli, Dabliù Bush è il miglior presidente di tutti i tempi e il suo quasi omonimo Washington gli fa una pippa.
Se ci si informa in maniera un po’ più approfondita si scopre che la società americana è agitata da molti mesi da una vera e propria rivolta di alcuni alti gradi militari contro le scelte di politica estera dell’amministrazione repubbli-con.
Il primo atto concreto della clamorosa iniziativa è stato il 15 aprile scorso l’invio di una lettera nella quale un gruppo di alti ufficiali in congedo chiedeva al presidente di licenziare in tronco il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld.
Tra i firmatari il gen. Anthony Zinni, il gen. Paul Eaton, il gen. Gregory Newbold, il gen. Paul Van Riper, il gen. Charles Swannack, il gen. John Riggs e il gen. John Batiste.
Il motivo di questa richiesta nasce dal sistematico rifiuto di Rumsfeld di tenere in considerazione i consigli provenienti dai comandanti militari, che forse di tattica e guerra ne capiscono qualcosa di più di lui, e per aver di conseguenza condotto gli Stati Uniti alla débacle in Iraq, un paese che sta ormai precipitando proprio in quella sanguinosa guerra civile totale e incontrollabile che, secondo la propaganda di Cheney e compagnia cantante, l’intervento anglo-americano avrebbe dovuto evitare.
Il bello, o il brutto a seconda delle opinioni, è che si tratta in massima parte di ufficiali che hanno sempre sostenuto il partito repubblicano ma che si sentono traditi dalla sua deriva neocon e non bisogna pensare che i fautori della protesta siano solo vecchi generali in pensione un po’ rincoglioniti.
Secondo il sito Appeal for Redress, sono almeno 219 i militari in servizio che hanno sottoscritto un appello al Congresso in cui si chiede il ritiro delle truppe USA dall'Iraq. L'appello sarà consegnato il 18 gennaio 2007, il Martin Luther King Day, e recita:
"As a patriotic American proud to serve the nation in uniform, I respectfully urge my political leaders in Congress to support the prompt withdrawal of all American military forces and bases from Iraq . Staying in Iraq will not work and is not worth the price. It is time for U.S. troops to come home".
"Come patriota Americano fiero di servire in uniforme la nazione, chiedo ai miei rappresentanti al Congresso di appoggiare l’immediato ritiro di tutte le forze armate americane dall’Iraq. Rimanere in Iraq non serve e non ne vale la pena. E’ tempo per le truppe americane di tornare a casa".
Il malumore serpeggia anche in altri autorevoli settori del potere a stelle e strisce.
Il 6 giugno scorso si è svolta a Washington una conferenza stampa nella quale, oltre ai militari rivoltosi, ha partecipato un gruppo di ex diplomatici che ha duramente criticato la politica estera e di sicurezza nazionale dell'amministrazione Bush, chiedendo agli americani di punirla alle elezioni di novembre, come poi è effettivamente avvenuto.
Non dimentichiamo poi il sempre maggior numero di americani che chiede insistentemente di fare piena luce sui fatti dell’11 settembre con l’istituzione di una Commissione d’Inchiesta veramente indipendente, oltre alle richieste di impeachment per le bugie che hanno condotto Bush all’avventura bellica in Iraq.
Dietro alla cacciata di Rumsfeld il giorno dopo il risultato elettorale di medio termine, fatta passare per un diktat del neo presidente della Camera Nancy Pelosi, vi è quindi secondo molti osservatori una seppur tardiva accoglienza della richiesta avanzata nella famosa lettera di primavera.
Se il maggiore problema apparente è l’Iraq, è indubbio però che i generali stiano da tempo reagendo negativamente alle voci sempre più insistenti di attacco all’Iran. Negli ambienti militari si parla di un’altra lettera che alcuni generali e ammiragli in servizio attivo avrebbero presentato al presidente dei capi di stato maggiori riuniti, gen. Peter Pace, in cui gli ufficiali minacciano le dimissioni nel caso in cui la Casa Bianca ordinerà un attacco militare contro l'Iran.
Questo perché in realtà, anche tolto di mezzo Rumsfeld, i militari si rendono conto che il problema è Cheney, che è il vero architetto della politica della guerra preventiva e perpetua. A differenza di Rumsfeld però, che è stato nominato dal Presidente, Cheney è stato eletto dal popolo e non si può licenziare come un co.co.co qualsiasi.
Per dimostrare che la rivolta contro Bush ha carattere perfettamente bipartisan basti dire che il più autorevole settimanale della sinistra americana “The Nation” ha pubblicato nel numero del 16 ottobre un articolo intitolato “Rivolta dei Generali — gli ufficiali contro una guerra fallita” a firma di Richard J. Whalen, affermato esperto di strategia del partito repubblicano e conservatore.
In un articolo su "Slate" dello scorso aprile, il giornalista Fred Kaplan si chiedeva se un colpo di stato militare negli Stati Uniti non avrebbe in questo momento paradossalmente un effetto di moderazione sulla politica americana.
Per ora invece i militari, più saggiamente, sperano che un cambio di indirizzo politico alla Casa Bianca in senso Democratico possa scongiurare lo spauracchio di un allargamento all’Iran del conflitto medio-orientale.
“La via d’uscita che mi pare possibile sta nel conferire la maggioranza ai democratici alla Camera e al Senato in modo che si possa fare un’inversione di rotta”, ha detto il gen. Paul Eaton, da sempre repubblicano, riferendosi al disastro della guerra irachena in una intervista a Salon: “La maggior parte di noi vede altri due anni di tutto questo se i repubblicani restano al potere”. “Non ci saresti riuscito a farmi votare per Kerry o Gore neanche con la tortura, ma adesso non sono davvero entusiasta per ciò che ho votato”.
Un alto ufficiale ancora in servizio, quindi protetto dall’anonimato, recentemente rientrato dall’Iraq, ha detto sempre alla stessa rivista: “Posso riferirvi, dalla discussioni a cui ho partecipato nei miei ambienti, che l’unico modo di consentire o arrivare a dei cambiamenti è cambiare leadership”.
Riflettendo questa stessa idea diversi ex ufficiali che hanno avuto recenti esperienze di combattimento in Iraq, hanno lanciato un appello agli elettori americani pro partito democratico.
I generali John Batiste e Paul Eaton hanno rilasciato interviste alla rivista online Salon in cui auspicavano una vittoria democratica. “La cosa migliore che adesso può accadere è che in una o tutt’e due le camere prevalgano i democratici in modo da poter stabilire un qualche controllo”, ha detto il gen. Batiste.
Secondo il col. W. Patrick Lang, ex Ufficiale dell’Intelligence della difesa per il Vicino Oriente e l’Asia meridionale, il Congresso avrebbe il potere di mettere sotto controllo il partito della guerra globale e permanente alla Casa Bianca. Esso potrebbe infatti ritirare il permesso concesso al presidente di fare la guerra nell’ottobre 2002 e potrebbe tagliare i fondi per continuare la disavventura irachena.
Sempre però che George non si inventi qualche altra legge antiterrorismo ancora peggiore di quelle già emanate, o non capiti un’ennesima provvidenziale Pearl Harbor.
Bisogna andarsi a cercare le notizie in qualche articolo di giornale e su Internet perché i nostri telegiornali delle ore venti, tra un matrimonio del secolo e un fattaccio di cronaca al sangue preferiscono, se proprio devono parlare di cose serie, far passare l’idea che alla Casa Bianca “tutto va ben, madama la marchesa”. I consensi di George sono in caduta libera e lo sanno anche le pietre ma per gli inviati a Washington più realisti del re, come l’apposito Borrelli, Dabliù Bush è il miglior presidente di tutti i tempi e il suo quasi omonimo Washington gli fa una pippa.
Se ci si informa in maniera un po’ più approfondita si scopre che la società americana è agitata da molti mesi da una vera e propria rivolta di alcuni alti gradi militari contro le scelte di politica estera dell’amministrazione repubbli-con.
Il primo atto concreto della clamorosa iniziativa è stato il 15 aprile scorso l’invio di una lettera nella quale un gruppo di alti ufficiali in congedo chiedeva al presidente di licenziare in tronco il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld.
Tra i firmatari il gen. Anthony Zinni, il gen. Paul Eaton, il gen. Gregory Newbold, il gen. Paul Van Riper, il gen. Charles Swannack, il gen. John Riggs e il gen. John Batiste.
Il motivo di questa richiesta nasce dal sistematico rifiuto di Rumsfeld di tenere in considerazione i consigli provenienti dai comandanti militari, che forse di tattica e guerra ne capiscono qualcosa di più di lui, e per aver di conseguenza condotto gli Stati Uniti alla débacle in Iraq, un paese che sta ormai precipitando proprio in quella sanguinosa guerra civile totale e incontrollabile che, secondo la propaganda di Cheney e compagnia cantante, l’intervento anglo-americano avrebbe dovuto evitare.
Il bello, o il brutto a seconda delle opinioni, è che si tratta in massima parte di ufficiali che hanno sempre sostenuto il partito repubblicano ma che si sentono traditi dalla sua deriva neocon e non bisogna pensare che i fautori della protesta siano solo vecchi generali in pensione un po’ rincoglioniti.
Secondo il sito Appeal for Redress, sono almeno 219 i militari in servizio che hanno sottoscritto un appello al Congresso in cui si chiede il ritiro delle truppe USA dall'Iraq. L'appello sarà consegnato il 18 gennaio 2007, il Martin Luther King Day, e recita:
"As a patriotic American proud to serve the nation in uniform, I respectfully urge my political leaders in Congress to support the prompt withdrawal of all American military forces and bases from Iraq . Staying in Iraq will not work and is not worth the price. It is time for U.S. troops to come home".
"Come patriota Americano fiero di servire in uniforme la nazione, chiedo ai miei rappresentanti al Congresso di appoggiare l’immediato ritiro di tutte le forze armate americane dall’Iraq. Rimanere in Iraq non serve e non ne vale la pena. E’ tempo per le truppe americane di tornare a casa".
Il malumore serpeggia anche in altri autorevoli settori del potere a stelle e strisce.
Il 6 giugno scorso si è svolta a Washington una conferenza stampa nella quale, oltre ai militari rivoltosi, ha partecipato un gruppo di ex diplomatici che ha duramente criticato la politica estera e di sicurezza nazionale dell'amministrazione Bush, chiedendo agli americani di punirla alle elezioni di novembre, come poi è effettivamente avvenuto.
Non dimentichiamo poi il sempre maggior numero di americani che chiede insistentemente di fare piena luce sui fatti dell’11 settembre con l’istituzione di una Commissione d’Inchiesta veramente indipendente, oltre alle richieste di impeachment per le bugie che hanno condotto Bush all’avventura bellica in Iraq.
Dietro alla cacciata di Rumsfeld il giorno dopo il risultato elettorale di medio termine, fatta passare per un diktat del neo presidente della Camera Nancy Pelosi, vi è quindi secondo molti osservatori una seppur tardiva accoglienza della richiesta avanzata nella famosa lettera di primavera.
Se il maggiore problema apparente è l’Iraq, è indubbio però che i generali stiano da tempo reagendo negativamente alle voci sempre più insistenti di attacco all’Iran. Negli ambienti militari si parla di un’altra lettera che alcuni generali e ammiragli in servizio attivo avrebbero presentato al presidente dei capi di stato maggiori riuniti, gen. Peter Pace, in cui gli ufficiali minacciano le dimissioni nel caso in cui la Casa Bianca ordinerà un attacco militare contro l'Iran.
Questo perché in realtà, anche tolto di mezzo Rumsfeld, i militari si rendono conto che il problema è Cheney, che è il vero architetto della politica della guerra preventiva e perpetua. A differenza di Rumsfeld però, che è stato nominato dal Presidente, Cheney è stato eletto dal popolo e non si può licenziare come un co.co.co qualsiasi.
Per dimostrare che la rivolta contro Bush ha carattere perfettamente bipartisan basti dire che il più autorevole settimanale della sinistra americana “The Nation” ha pubblicato nel numero del 16 ottobre un articolo intitolato “Rivolta dei Generali — gli ufficiali contro una guerra fallita” a firma di Richard J. Whalen, affermato esperto di strategia del partito repubblicano e conservatore.
In un articolo su "Slate" dello scorso aprile, il giornalista Fred Kaplan si chiedeva se un colpo di stato militare negli Stati Uniti non avrebbe in questo momento paradossalmente un effetto di moderazione sulla politica americana.
Per ora invece i militari, più saggiamente, sperano che un cambio di indirizzo politico alla Casa Bianca in senso Democratico possa scongiurare lo spauracchio di un allargamento all’Iran del conflitto medio-orientale.
“La via d’uscita che mi pare possibile sta nel conferire la maggioranza ai democratici alla Camera e al Senato in modo che si possa fare un’inversione di rotta”, ha detto il gen. Paul Eaton, da sempre repubblicano, riferendosi al disastro della guerra irachena in una intervista a Salon: “La maggior parte di noi vede altri due anni di tutto questo se i repubblicani restano al potere”. “Non ci saresti riuscito a farmi votare per Kerry o Gore neanche con la tortura, ma adesso non sono davvero entusiasta per ciò che ho votato”.
Un alto ufficiale ancora in servizio, quindi protetto dall’anonimato, recentemente rientrato dall’Iraq, ha detto sempre alla stessa rivista: “Posso riferirvi, dalla discussioni a cui ho partecipato nei miei ambienti, che l’unico modo di consentire o arrivare a dei cambiamenti è cambiare leadership”.
Riflettendo questa stessa idea diversi ex ufficiali che hanno avuto recenti esperienze di combattimento in Iraq, hanno lanciato un appello agli elettori americani pro partito democratico.
I generali John Batiste e Paul Eaton hanno rilasciato interviste alla rivista online Salon in cui auspicavano una vittoria democratica. “La cosa migliore che adesso può accadere è che in una o tutt’e due le camere prevalgano i democratici in modo da poter stabilire un qualche controllo”, ha detto il gen. Batiste.
Secondo il col. W. Patrick Lang, ex Ufficiale dell’Intelligence della difesa per il Vicino Oriente e l’Asia meridionale, il Congresso avrebbe il potere di mettere sotto controllo il partito della guerra globale e permanente alla Casa Bianca. Esso potrebbe infatti ritirare il permesso concesso al presidente di fare la guerra nell’ottobre 2002 e potrebbe tagliare i fondi per continuare la disavventura irachena.
Sempre però che George non si inventi qualche altra legge antiterrorismo ancora peggiore di quelle già emanate, o non capiti un’ennesima provvidenziale Pearl Harbor.
http://www.tj.splinder.com/post/9936675/LA+LUNGA+RINCORSA+DI+JOHN+MCCAIN
RispondiEliminaMi ha fatto scompisciare quel generale che qualche giorno fa ha detto, più o meno: "non possiamo ritirarci dall'Iraq, sarebbe la guerra civile"... ah, non sia mai! Iracheni che si ammazzano a vicenda, il paese nel caos, un ministero contro l'altro... ma ve l'immaginate se l'Iraq diventasse così? Per fortuna oggi c'è la pace, grazie a Bush...
RispondiElimina@ Bhikkhu
RispondiEliminaDopo che gli americani se ne saranno andati, noi rischiamo di fare la fine di:
"E l'ultimo spenga la luce."
Certo che se anche i marziali generali americani capiscono che l'iraq è messo male.. se si trovano ad osteggiare apertamente bush.. rimangono solo i grandi giornalisti italiani a difenderlo.....
RispondiEliminaNon sai quanto mi fa piacere leggere certe cose. Sono fiducioso che gli americani iusciranno a mandare questa amministrazione fantoccia e irresponsabile.
RispondiEliminaOra, se credete che i militari USA siano diventati d'improvviso tutti pacifisti forse vi sbagliate un pochino...
RispondiEliminaCerti ambienti militaristi e ultranazionalisti non sono in disaccordo sul COSA, ma sul COME. Per loro combattere il nemico e portare l'America ovunque nel mondo è un diritto e un dovere.
Il motivo di tanto malumore è l'essere stati guidati da un incompetente in strategia militare, che ha usato male, e logorato oltre ogni immaginazione, il potere militare USA.
I militari sanno che gli USA non sono oggi in grado di sostenere nessuna ulteriore iniziativa militare, il che per un americano equivale a sentirsi col nemico alle pore, anche se ovviamente non è così. Il senso di impotenza dato dal non poter attaccare in ogni momento Siria , Iran e NordKorea porta a questi malpancismi.
Rumsfeld è accusato di aver puntato tutte le risorse sulla guerra ipertecnologica, dall'alto, e aver trascurato le "ground manouvers", la guerra di terra, la fanteria e i reparti meccanizzati non sono stati in Iraq equipaggiati adeguatamente nè erano nel numero sufficiente a detta dei generali.
Leggete quanto scrive Frederick Kagan, il fratellino del pioù famoso Robert Kagan, anche lui affiliato al PNAC ( Project for a New American Century ) e all'American Enterprise Institute, tempio neocon.
RispondiEliminaRumsfeld's self-inflicted wounds
The outgoing defense secretary was too focused on transforming the military, and failed to plan for achieving political goals in Iraq.
By Frederick W. Kagan,
Frederick W. Kagan is a resident scholar at the American Enterprise Institute and the author of "Finding the Target: The Transformation of the American Military."
November 12, 2006
DONALD RUMSFELD had the chance to be one of the great American heroes of all time. He held office at a moment of enormous danger. He had many admirable qualities necessary for success. But like the tragic heroes of old, hubris and inflexibility made vices of his virtues, leading to his own fall and the collapse of his life's work.
Rumsfeld was in many ways ideally suited to be secretary of Defense in the wake of 9/11. His experience in the same position under President Ford and as ambassador to NATO seemed to fit him to the task of overseeing a complex military coalition. His determination and self-confidence were essential in a wartime secretary — and unusual in recent times. When he showed, early in his tenure, that he meant to take positive control of the Pentagon's sprawling bureaucracy, many observers cheered. This was precisely the sort of man the nation needed at the military's helm at a time of crisis.
As former CIA Director Robert Gates prepares to succeed Rumsfeld, the chorus is already rising to declare that Gates must be more open to advice from the military, more of a consensus-builder than a tyrant. Perhaps. It isn't clear how a more open secretary of Defense would have fared given the advice the military gave Rumsfeld.
Belief in the value of technology and the need for light, swift ground forces pervaded the senior military leadership in the 1990s. Then-Army Chief of Staff Gen. Eric Shinseki had launched an ambitious program to "lighten" the Army and equip it with advanced precision weapons. Shinseki certainly warned that more troops would be needed to secure Iraq in the wake of major combat operations. But Gen. Tommy Franks, the commander who developed and executed the actual war plan, wanted fewer. Many officers opposed the "light footprint" approach with which Rumsfeld tackled the problem of the Iraqi insurgency — but not Gen. John Abizaid, who took over from Franks right after the end of major combat operations. A secretary of Defense who encouraged discussion and dissent would have perhaps anticipated more of the flaws in the policies he was proposing. Still, the strategy that has led to disaster in Iraq belonged to the commanders at least as much as to Rumsfeld. Scapegoating him in isolation will prevent us from learning the essential lessons of our recent failures.
For the problem with Rumsfeld was not his flawed managerial style, but his flawed understanding of war. Early in his term, he became captive of an idea. He would transform the U.S. military in accord with the most advanced theories of the 1990s to prepare it for the challenges of the future. He was not alone in his captivity. As a candidate, President Bush announced the same program in 1999 — long before anyone thought Don Rumsfeld would return as secretary of Defense. The program, quite simply, was to rely on information technology to permit American forces to locate, identify, track and destroy any target on the face of the Earth from thousands of miles away. Ideally, ground forces would not be necessary in future wars. If they were, it would be in small numbers, widely dispersed, moving rapidly and engaging in little close combat. This vision defined U.S. military theory throughout the 1990s, and it has gone deep into our military culture. Rumsfeld's advent hastened and solidified its triumph, but his departure will not lead instantly to its collapse.
At its root, this "transformation program" is not a program for war at all. War is the use of force to achieve a political purpose, against a thinking enemy and involving human populations. Political aims cannot normally be achieved simply by destroying targets. But the transformation that enthusiasts of the 1990s focused too narrowly on destroyed the enemy's military with small, lean and efficient forces. This captivated Rumsfeld, becoming his passion. He meant it to be his legacy. It was the fatal flaw in this vision that led, in part, to the debacle in Iraq. Focused on destroying the enemy's military quickly and efficiently, Rumsfeld refused to consider the political complexities that would follow that destruction. He and Franks pared the invasion force down to the smallest level that could defeat Saddam Hussein's army, but refused to consider the chaos that would follow the collapse of Hussein's government. This failure is inherent in the military thought of the 1990s. Rumsfeld did not invent it. He simply executed it.
Having made the mistake of failing to plan for achieving the political goals of the Iraq war, Rumsfeld then compounded his error. The war in Iraq threatened military transformation. It was expensive and sucked scarce defense resources away from transformational programs. It was manpower-intensive and hindered Rumsfeld's efforts to reorient the military away from a focus on land power. It was intellectually distracting; counter-insurgency has little to do with transformation.
Here Rumsfeld's virtues became his greatest vices. Instead of recognizing the danger of losing Iraq, he remained committed to transforming the military to meet undefined future threats, spending billions of dollars preparing to fight Enemy X in 2025. He consistently opposed increasing the size of the ground forces, despite the obvious growing strains on the Army and the marines of repeated deployments to Afghanistan and Iraq.
He fought to keep expensive weapons systems, such as the F-22 fighter jet and the F-35 Joint Strike Fighter, which were billed as "transformational" because they used precision-guided munitions to strike remote targets. That money could have been used for better armored vehicles, more body armor and more Soldiers. The same determination that had seemed so promising when he first took over became a stubborn refusal to change course in a storm.
Rumsfeld has paid a high price for this failure. He will not be known as the secretary of Defense who transformed the military, but as the secretary of Defense who, at best, nearly lost the Iraq war. Worse still, his stubbornness has destroyed the ground forces. The Army and marines have worn out their equipment and their troops. Units must swap tanks and Humvees just to be able to train. The Army brass recently leaked the fact that only the units that are in Iraq or about to deploy to Iraq are combat-ready — an unprecedented military crisis. Rumsfeld leaves behind him a military far weaker and less capable than the one he took charge of in 2001.
The greatest irony of all is that the military Rumsfeld has destroyed is the one he created. He was secretary of Defense in the mid-1970s as the military was shifting from conscription to the all-volunteer force. He shepherded the volunteer military through its early growing pains and supported it valiantly against its many critics. Perfecting it through transformation was to be the culmination of his life's work. The damage he has done to it instead is his tragedy — and the nation's.
Mi fai un piacere vai a leggere quello che ha scritto una certa Velvet su noi povere donne Frustrate di sinistra? Ecco il link
RispondiEliminahttp://www.lamianotizia.com/comments.php?y=06&m=10&entry=entry061029-093040&sv=1
@ tisbe
RispondiEliminaho letto, ma non saprei come commentare. Di fronte ad una tale incrollabile certezza su come si divide il mondo in due come fai a darle una delusione e spiegarle che è tutto relativo? Ciao, un abbraccio
@ justfrank
RispondiEliminaleggere l'opinione di Kagan (seppure fratello) è interessante. Dopo aver spinto in ogni modo l'America al disastro questi signori del PNAC si tirano indietro con massima vigliaccheria cercando il capro espiatorio. Anche il vecchio Kissinger adesso se ne viene fuori con la favoletta che "lui l'aveva detto". Ma già, quando inchiappettarono Nixon lui si salvò e quelli come lui si salveranno anche oggi. Spero solo che gli americani vengano a sapere tutta la verità di questi ultimi anni e facciano giustizia.